Storie personali e famigliari di vita vissuta e di tragiche esperienze della nostra gente:
Giuseppe Rocchi - MEMORIE SULLA MIA DEPORTAZIONE IN GERMANIA PER LAVORO FORZATO
Giuseppe rocchi - I DIECI MESI DI PERMANENZA A LUSSINO CON GLI JUGOSLAVI, Aprile '45 - Febbraio '46
Nica Camali - LA MIA TESTIMONIANZA
Franco Ceccarelli - UNA PICCOLA STORIA DELL'ESODO
Nives Rocchi Piccini - UNA STORIA VERA...DI PERSECUZIONI
Vito Mavrovich - LA MIA FUGA VERSO LA LIBERTA'
Elsie A. Ragusin - DA LUSSINO AD AUSHWITZ. Vita di Elsie Ragusin
Giovanni Zvelich - "GLI ANNI "MIGLIORI" DI GIOVANNI ZVELICH" (Diario di un deportato di Neresine)
Premetto che, già dal 1941 navigavo quale marittimo su motovelieri lungo l’Adriatico in qualità di aiuto motorista. Nel 42-43 imbarcato sulla M/V Romilda, ho navigato lungo la Dalmazia e l’Albania per il trasporto di truppe tedesche e materiali vari, fino a quando il giorno, seguente al mio momentaneo sbarco, la nave è stata silurata al largo di Zara. Si è persa ogni traccia della nave e del suo equipaggio.
Il 15 agosto 1944 le truppe tedesche, occupanti l’Istria e quindi la nostra isola di Lussino, dopo un rastrellamento nel mio paese di Neresine (Pola), ci siamo trattenuti presso i locali del Comune e dopo una sommaria visita generale, ci hanno concesso un’ora di tempo per recarsi a casa per prendere una giacca e avvertire i famigliari che avremmo dovuto essere portati a Fiume per un’ulteriore visita più approfondita, minacciandoci con le armi in caso di un eventuale mancato ritorno entro un’ora. Qualcuno, compreso mio fratello Alfredo, si è nascosto in campagna. Nessuno si è accorto della sua assenza in quanto non esisteva ancora, a mio avviso, un elenco dei rastrellati. La paura era tanta.
Con un autocarro siamo stati portati a Cherso, porto più vicino per Fiume. Con un battello a motore, in 40 tra quelli di Neresine e Lussingrande, quest’ultimo paere sempre sull’isola di Lussino, dopo 4 ore siamo sbarcati a Fiume dove in località Susak siamo stati rinchiusi. Dopo tre giorni, senza alcuna visita, siamo stati sistemati in vagoni ferroviari merci con un’apertura di 10 centimetri delle due porte centrali. Dopo tre giorni siamo arrivati ad Amburgo.
Soltanto al mio ritorno ho saputo che i nostri famigliari, scoperta l’irregolarità della deportazione, hanno cercato di raggiungerci a Fiume per farci scappare, ma era troppo tardi. Eravamo appena partiti. Lungo il percorso, in particolare attraverso l’Austria, ogni tanto il treno si fermava in campagna per permetterci di scendere per le necessità fisiologiche. Mi ricordo che di giorno i contadini ci regalavano le mele, mentre di notte le prendevamo da soli in quanto altro non c’era da mangiare. A causa dei continui bombardamenti il treno si fermava sempre fuori città.
All’arrivo ad Amburgo eravamo neri di fuliggine della locomotiva a carbone. La mia camicia bianca, al lavaggio ha fatto diventare l’acqua nera.
Siamo stati sistemati in un campo di concentramento da dove scortati da militari, ci portavano tutti i giorni presso palazzi e uffici pubblici a sgomberare le macerie dei bombardamenti. Per alcuni giorni abbiamo sgomberato fabbriche di motori per sommergibili. Questo particolare mi è rimasto impresso in quanto provenivo dai motori marini, avendo navigato come motorista. Il periodo di permanenza in questa situazione, credo sia stato un paio di mesi. Quando si sono accorti che eravamo marittimi, ci hanno imbarcato su una nave caserma (OFSCHETT), non ricordo bene il nome. Ogni notte, in occasione dei 2 –3 bombardamenti, scappavamo nei rifugi a terra. Una notte al ritorno dal rifugio, la nave non si vedeva più; era visibile soltanto la ciminiera e due alberelli. Era stata colpita ed affondata assieme a tutti quelli che in quella occasione non erano scappati nel rifugio. Qualche volta è capitato anche a me, stanco del lavoro e delle continue corse. La sistemazione sulla nave era migliore di quella nel campo, si mangiavano anche bucce di patate, raccolte negli immondezzai; un giorno siamo venuti in possesso di 4 pomodori, non so come, forse perché eravamo in 4, Mario Glavan, Gaudenzio Soccoli e del quarto non mi ricordo. Per sfruttare al massimo i pomodori, abbiamo trovato nelle immondizie un barattolo di tre-quattro litri. Pulito alla meglio, lo abbiamo riempito d’acqua e dei quattro pomodori spremuti. Fatto bollire per alcuni minuti, abbiamo sorseggiato il tutto a turno. Quel giorno ci siamo riempiti lo stomaco. A bordo della nave era a disposizione una minestra dolciastra e pane di segala. Il tutto veniva distribuito sempre sotto il controllo dei militari tedeschi, fino a quando ci hanno trasferito a Danzica, dove ci hanno imbarcati uno per ogni nave, forse per evitare complotti. La M/N WARTHERLAND di circa 15.000 tonnellate con 5 stive, poteva portare una cinquantina di passeggeri. Con militari, cannoni e mitraglie a quattro canne, eravamo chiamati “incrociatore ausiliario”. Strano che per un po’ di tempo a bordo con me si trovava in qualità di nostromo anche il cap. Giovanni Zvelich di Ossero.
Prima dell’imbarco sul Wartherland ero stato imbarcato sulla M/N STHETTIN, ma solo per qualche giorno perché, ancora in porto, siamo stati colpiti da due bombe ed io sono riuscito a salvarmi nuotando verso terra.
I viaggi con la M/N wartherland erano per la Lettonia, Lituania e Finlandia. Andata carichi di militari e carri armati, ritorno con militari feriti e profughi. La mia qualifica a bordo era quella di cameriere alla mensa ufficiali, in quanto alla domanda di che mestiere facevo nella marina italiana, sapendo che in occasione dei naufragi il personale di macchine era quello più colpito per la posizione a bordo ed avendo sempre fame, volevo andare vicino alla cucina, e cosi ho detto cameriere. Non conoscendo la lingua, era difficile capirci, quando mi chiedevano una forchetta, io portavo il cucchiaio e cosi via. Comunque con gli ufficiali avevo costruito un buon rapporto.
Si navigava soltanto di notte per non essere presi dagli aerei siluranti russi, che per fortuna erano poco capaci con l’aviazione. I convogli erano formati da una decina di navi da trasporto più navi militari di scorta; comunque ogni notte perdevamo qualche nave in particolare con le mine magnetiche che i russi depositavano in mare.
Nei pressi dei porti e di alcuni passaggi obbligati, dato il basso fondale del mar Baltico, le navi erano fornite di apparecchiature per far scoppiare le mine ad una distanza di 100 metri dalla nave in modo da non danneggiarla. Per ottenere questo risultato, la nave era circondata esternamente da cavi elettrici saldati sullo scafo. Nei punti segnalati per le mine si immergeva in mare una specie di siluro che con la velocità della nave la sua elica produceva probabilmente una corrente elettrica che faceva scoppiare le mine a 100 metri di distanza. A bordo in particolare in navigazione era obbligatorio indossare il salvagente. Dividevo la mia cabina a poppa, con due letti a castello con la infermiera di bordo (Margarethe), con la quale data la mia età (19 anni), avevo più volte intrattenuto rapporti affettuosi, (ci piacevamo) ma non fino al punto di un contatto completo, in quanto lei continuava sempre a ripetere che data la situazione di guerra e le varie malattie veneree che ci sono in giro, la sua professione di infermiera, conoscendo le possibili conseguenze, non voleva rischiare. Non ricordo quando e dove ci siamo separati per destinazioni diverse. Per alcuni anni ho conservato la sua foto in Italia, dietro uno specchietto che avevo portato dalla Germania. Poi forse mia moglie Silvana se né disfatta. Il vantaggio che ho avuto da lei, è di aver un po’ imparato la lingua tedesca, partendo naturalmente dalle parole affettuose a quelle di servizio e a quelle delle varie situazioni belliche.
Come anzi detto, al ritorno con feriti in particolare da Riga, ogni notte ne morivano dai 15 ai 20. Quindi durante la stessa notte, sistemati in sacchi, si gettavano in mare. A Riga, date le poche ore a disposizione per la sosta, per l’avanzare dei russi (febbraio), i profughi venivano imbarcati e disposti per una ventina alla volta in reti di corda di circa 5x5 e alzati ai quattro angoli con i verricelli di bordo e disposti nelle stive. In questo modo il tempo di carico era breve. Con le batterie di bordo si doveva accompagnare la difesa dell’avanzata dei russi i quali erano ormai a una decina di Km. da Riga.
In occasione di una sosta a Danzica per il riassetto della nave, io e Giovanni Zvelich siamo andati nella vicina Gothengafen per un incontro con qualche italiano. In un cinema abbiamo conosciuto due ragazze italiane con le quali abbiamo fatto amicizia. All’uscita, Giovanni che stava dietro, mi fa capire che quella che veniva dietro a me era zoppa. Di questo fatto non mi ricordo altro. A Gothengafen però mi ricordo una sera siamo andati a ballare in una baracca con gli italiani. Essendo provenienti da bordo e cioè considerati prima linea di guerra, avevamo in dotazione, burro, dolci e acqua vite per il freddo. Ballavamo unicamente con le luci dei bagliori delle bombe che cadevano nelle vicinanze, facendo traballare la baracca come un terremoto.
In occasione di un viaggio verso Riga, la nave è uscita di rotta, causa i bassi fondali del Baltico con le rotte obbligate, ci siamo arenati. Non si vedeva che cielo e mare. I russi tentavano incursioni aeree singole, però per fortuna senza successo data la loro scarsa aviazione rispetto agli inglesi. A questo punto abbiamo cominciato a scaricare su bettoline, i carri armati, per alleggerire la nave e quindi uscire dalla secca. Il comandante diede ordine di far ammainare una scialuppa di salvataggio e con vernice bianca imitare i baffi della schiuma a prua, ed a poppa cospargere molta schiuma di sapone per far credere alla scia di velocità. Difatti in questo modo i siluranti da lontano e considerando la velocità della nave, hanno sganciato sette siluri i quali sono passati tutti a prua della nave. Io ero di posto a prua e passavo le munizioni alle mitraglie e ai cannoni. Ho presente la faccia di un pilota scorto dentro il suo abitacolo dell’aereo, in quanto passavano ad una quota di 20-30 metri. Dei sette siluranti che hanno sganciato i siluri, 5 ne abbiamo abbattuti. Ho potuto vedere due che fumando e barcollando sono caduti in mare. Gli aerei con la mitraglia hanno colpito soltanto di striscio la ciminiera. Il giorno seguente, hanno tentato improvvise incursioni solitarie, ma data la perfetta attività della nostra contraerea, ancora lontani, si ritiravano.
Il quarto giorno, provenienti da Danzica sono arrivati quattro rimorchiatori, i quali ci hanno tirati fuori dalla secca e cosi abbiamo proseguito il nostro viaggio.
In questa occasione ho fatto un voto, promettendo che al ritorno a casa sarei salito sul Monte Ossero con un sacerdote per una Messa di ringraziamento nella chiesetta di S. Nicolò, patrono dei naviganti e posta in cima al monte di Neresine a quota 580 metri. Al ritorno a casa ho eseguito quanto promesso.
Nell’ultimo viaggio a circa 30 miglia da Riga abbiamo preso una mina magnetica, (non prevista in questa zona). Nella stiva n°3 si è aperta una falla e la nave a cominciato a sbandare a sinistra scendendo con la prua. Il comandante ha ordinato di portare materassi e coperte e con l’ausilio di cemento abbiamo cercato di tamponare per lo meno parzialmente la falla. Era di notte, vento con onde lunghe di scirocco e una temperatura di –25°. Le navi militari di scorta non potevano affiancarci per soccorrerci a causa del mare molto mosso che avrebbe potuto provocare una collisione. Alcuni di bordo, visto il pericolo di affondamento, si sono gettati in mare. Quelli che venivano raccolti entro 10 minuti erano salvi. Altri morivano dal freddo oppure cadevano sui massi di ghiaccio vaganti sul mare. Io mi sono portato vicino ad una scialuppa con altri per tentare che, con l’affondamento della nave, la scialuppa al livello del mare ci avrebbe salvati; senza pensare che in questa situazione la nave ci avrebbe risucchiato trascinandoci con lei. Non ho mai avuto paura nei momenti di pericolo, soltanto al mio ritorno a casa e tutt’oggi mi vengono i brividi pensando a quei momenti.
La nave è rimasta sommersa per la metà e cioè tutta la prua e noi ci siamo raccolti a poppa. All’alba sono arrivati due rimorchiatori i quali ci hanno trascinati nel porto di Riga. Le nostre macchine erano tutte ferme. A Riga ci hanno fatto sollevare leggermente la prua e sistemato davanti alla porta del bacino a secco per evitare che i russi potessero danneggiare il bacino.
A Riga per alcuni giorni mi sono anche divertito a seguire durante le notti gli aerei russi che cercavano di bombardare e mitragliare le attività del porto, ma i tedeschi con la loro contraerea, dopo aver individuato con i proiettori mobili l’aereo, cercavano di colpirli con i traccianti. Gli aerei si dimenavano a destra e a sinistra per andare fuori bersaglio. Inconsciamente a 19 anni spettacolo era un divertimento.
Dopo una decina di giorni di riparazioni provvisorie, ci hanno caricato di profughi e feriti con destinazione Copenaghen, in quanto il fronte russo stava avanzando e quindi non si poteva rientrare a Danzica.
A Copenaghen la nave doveva rimanere ferma per i grandi lavori di riparazione.
Io mi sono sentito male quando in occasione di una riunione di tutto l’equipaggio per illustrare la difesa da attacchi nemici di sabotaggio nei porti, il comandante ha detto (auslander rauss) e cioè “stranieri fuori”. Evidentemente non si fidavano di noi. Dopo qualche giorno, non ricordo in quale occasione, ho conosciuto e fatto amicizia con una ragazza di Copenaghen. Un giorno, la stessa mi ha invitato a casa per farmi conoscere i genitori. Ero preoccupato perché sapevo che fra i tedeschi e i danesi nel periodo di guerra i rapporti erano un po’ tesi; comunque su insistenza della ragazza ho accettato. Saliti sul tram di quelli con le pedane avanti e dietro aperte, lungo il percorso ho cominciato a pensare il perché mi vuole far conoscere i genitori. Mi sono venute in mente tre ipotesi: I° si è innamorata di me e quindi non mi vuole perdere, bensì proteggere dalla guerra. 2° era contro i tedeschi e mi voleva castigare in qualche modo per collaborazionismo con gli stessi. 3° oppure era a favore dei tedeschi e voleva liberarmi in qualche modo. Di fronte a questo dilemma, improvvisamente ho deciso e mi sono buttato dal tram in corsa scappando via, la ragazza mi chiamava e urlava fino alla scomparsa.
Nei giorni seguenti, tutto l’equipaggio ha avuto una licenza di 20 giorni da usufruire in territorio tedesco, e siccome l’Austria era occupata dai tedeschi, ho chiesto di andare a Vienna, ritenendo di essere più vicino all’Italia. Il comandante della nave, piuttosto basso e tarchiato, sempre accompagnato dal suo cane (thea), mi aveva promesso una buona licenza a condizione che al ritorno gli avessi portato 2 Kg. Di aglio in quanto, a suo parere, l’aglio italiano veniva considerato una medicina per la pressione arteriosa e disinfettante per l’organismo. Presi il treno e attraversai il canale di (Kiel) con documenti tedeschi i quali mi consentivano di recarmi ai comandi tappa e ritirare ogni giorno 200 gr. di pane di segala e 50 gr. di burro.
A Berlino abbiamo sostato in stazione per qualche minuto e poi subito ripartiti per la campagna in quanto i bombardamenti si susseguivano continuamente da parte delle fortezze volanti americane. Non ricordo quanti giorni sono passati in questo viaggio. Arrivati a Dresda, è suonato l’allarme aereo e cosi il treno è ripartito subito per la campagna. Io ho fatto appena in tempo ad aggrapparmi ai tubi a maniglia della locomotiva a vapore ed in questa situazione il treno si è fermato in campagna. Avevamo percorso circa 10 Km. vedevamo sopra di noi nuvole di fortezze volanti che bombardavano a tappeto la città e sembrava un continuo terremoto. Abbiamo poi saputo che in occasione di quel bombardamento i morti furono 30.000. A Vienna al comando Marina mi hanno fatto vedere che mancavano 4 giorni alla scadenza della mia licenza e che quindi dovevo ritornare al Comando di Amburgo.
Alla mia rimostranza che volevo andare a Fiume per salutare i miei genitori, e con l’ausilio delle tessere annonarie che avevo risparmiato per il ritiro dei dolci e acqua vite (snaps), l’addetto mi ha rilasciato un’ulteriore licenza di 15 giorni. Sono partito col treno per Fiume via Budapest, Zagabria e Lubiana. A causa però delle strade e ponti ferroviari rotti dai bombardamenti, la maggior parte dei chilometri li ho fatto a piedi. Portavo con me 10 Kg. di zucchero in quadretti che in quel periodo erano una manna. Assieme alla biancheria era troppo peso e ingombro, perciò ho lasciato tutto presso la stazione di Zagabria, mantenendo soltanto lo zucchero. Dopo soltanto 15 giorni sono arrivato a Fiume dove mi hanno detto di ripartire subito. Ho scongiurato ed ottenuto ulteriori 4 giorni per recarmi con una barca a motore a Cherso e quindi con un autocarro a gasogeno a Neresine.
Presentandomi al Comando militare tedesco dopo tre giorni sarei dovuto ripartire per Amburgo. Intanto lo zucchero è arrivato a casa. Il giorno seguente, mia madre ha chiamato il medico del paese Dr. Giovanni Marconi il quale vista la situazione mi ha messo a letto con uno straccio bagnato sulla fronte rilasciandomi un certificato di malattia con febbre ed una diagnosi di 4 giorni. Al controllo i tedeschi hanno creduto dicendo che sarebbero ritornati dopo 2 giorni. Al ritorno mia madre ha riferito che stavo bene e che ero già partito per Amburgo, invece mi ero nascosto in campagna vicino al castello dove mi portavano da mangiare. Dopo alcuni giorni i tedeschi si sono ritirati dall’isola lasciando il posto agli slavi. Con questa nuova situazione le cose si sono messe al meglio per quanto riguardano i tedeschi.
Per alcuni mesi ho lavorato come motorista presso la centrale elettrica dei cantieri navali di Lussinpicolo per poi scappare dai comunisti in Italia come profugo Giuliano. Gli slavi mi avevano imposto di dichiararmi slavo comunista, altrimenti sarei stato considerato loro nemico e come tale mi avrebbero trattato. Per questa nuova situazione sarebbe necessaria una nuova memoria del mio passato. Successivamente ho vissuto a Trieste, Boretto (RE), Bari, Ancona, poi la definitiva sistemazione del lavoro a Roma dove dal 1955 risiedo.
Al rientro dalla deportazione in Germania venti giorni prima dell’arrivo degli Slavi, tutti si aspettavano l’arrivo degli americani, invece sono arrivati gli Slavi.
Dopo qualche giorno, voci a Neresine davano per scontata la chiamata al servizio di leva militare, anche se le leggi internazionali non lo prevedevano così rapidamente. Esaminata la situazione, ho creduto opportuno impegnarmi in qualche lavoro, per evitare quanto anzidetto. Fui subito assunto in qualità di motorista presso la centrale elettrica del cantiere navale Piccini di Privlaca. Si lavorava otto ore al giorno più due ore gratis per quello, come dicevano, che aveva rotto il fascismo. Non ricordo se e quanto pagavano le otto ore, forse con le am-lire che quel periodo circolavano. So che qualche volta ci assegnavano un vaso di circa due Kg. di carne americana in scatola. Di frequente alla sera dopo il lavoro facevano la raccolta di tutti per andare con un camion ad assistere alle conferenze politiche; ma io non comprendendo lo slavo cercavo di scappare attraverso la rete metallica fuori dal cantiere.
Per la pausa a mezzogiorno, di un’ora, si fermavano i motori per farli ripartire all’una. A fianco alla centrale c’era un capannone dove operava una grande sega a dodici lame per segare i tronchi. Al suono della campana delle dodici tutti si fermavano. Io sono stato accusato di sabotaggio in quanto avevo fermato i motori mentre mancavano solo due minuti per finire di segare il tronco che era in lavorazione ed io non ne avrei consentito la fine… Per questo sono stato prelevato e rinchiuso nel sottoscala della Capitaneria di Porto, in prigione.
Alle quindici mi hanno liberato invitandomi ad andare urgentemente a rimettere in moto i motori. Una seconda volta sono stato prelevato dal lavoro e portato a bordo di un rimorchiatore, intimando l’immediata partenza per Punta Croce dove dovevamo prendere a rimorchio un motoveliero affondato dai bombardamenti e poi portato in superficie e portarlo al cantiere di Lussino. Il rimorchiatore si trovava in un molo presso la Capitaneria di porto. Chiesi qualche ora di tempo per la preparazione e presa conoscenza di tutti i macchinari di bordo. Si trattava di un natante piuttosto grande. Durante il sopralluogo osservai nel locale macchine un tubo di scappamento senza alcun rivestimento che rasentava la scaletta del locale e che in occasione di eventuale rollio avrebbe potuto procurarmi delle scottature. Preso un rotolo di amianto, abbandonato nel cortile coibentai il tubo. Finito il lavoro, fui prelevato e chiuso nel sottoscala e accusato di aver rubato il rotolo di amianto. Dopo circa due ore fui liberato e invitato a recarmi urgentemente in cantiere in quanto i motori erano fermi. Avevo capito che ce l’avevano con me.
Ragazzi di vent’anni, nonostante tutto, pensavamo anche al divertimento. L’unico possibile era il ballo; quindi mi ricordo che assieme a Virgilio Cavedoni e qualche altro al sabato sera andavamo al ballo a Lussingrande, dove le ragazze, con invidia dei locali ci preparavano i dolci, mentre i ragazzi ci bucavano le biciclette.
La domenica pomeriggio al ballo a Neresine e domenica dopo cena al ballo presso il “Quarnero” di Lussino fino a mezzanotte e cioè fino a quando non spegnevano tutte le luci della centrale. Il tutto con le strade non asfaltate e i copertoni delle ruote fasciati con spaghi e sfilacci.
Un giorno alla fine del lavoro, si presenta in cantiere un signore che parla anche il dialetto istriano in quanto io non capivo bene lo slavo, dichiarandosi della Polizia e invitandomi ad uscire con lui verso un molo del cantiere. Mi disse quanto segue: “Sappiamo che non ami gli slavi, ma avendo la Jugoslavia occupato queste terre, devi dichiararti slavo-comunista, altrimenti sarai considerato nostro nemico e quindi trattato come si trattano i nemici” e così dicendo mi puntò una pistola alla tempia. Rimasi senza parole e tremante, vedendomi terrorizzato mi disse “Per oggi vai, ma ritornerò tra qualche giorno”. Da qui la mia decisione di scappare al più presto possibile.
Un giorno di gennaio 1946, da Neresine mi comunicano che il giorno seguente dovevo presentarmi in Comune per la visita di leva militare. Il direttore del cantiere mi diede un permesso di quattro ore per andare a Neresine alla visita, informando le autorità che non potevo assentarmi dal lavoro in quanto in servizio presso la centrale elettrica del cantiere; per questo mi hanno dispensato dalla visita invitandomi a ritornare a Lussino e riprendere il servizio.
Dopo qualche giorno ho chiesto al direttore un permesso di otto giorni per andare a Trieste a curarmi i denti che avevo perso in Germania. Il giorno seguente con la motobarca del Filippo siamo potuti partiti in quanto i confini non erano ancora completamente chiusi, infatti a Trieste c'erano ancora gli americani. A Trieste con l’aiuto della cugina Nina Castellani ho trovato lavoro in qualità di autista e cameriere presso la N.D. Luisa Feltrinelli Doria dove sono rimasto per circa un anno per poi imbarcarmi sulle petroliere in navigazione lungo l’Adriatico. Dopo qualche anno sono riuscito a lasciare il mare per impiegarmi presso la raffineria ESSO di Bari, da dove sono passato a quella API di Falconara (Ancona) e quindi presso la Direzione Generale di Roma dove a sessanta anni ho terminato la mia carriera ma fino a sessantaotto sono rimasto ancora in servizio in qualità di consulente presso la stessa azienda.
Roma, 11 luglio 2008
Mercoledì 05 settembre 2007
Mauro Franciolini e Carlo Viale hanno raccolto a Genova la testimonianza dell'esule Domenica Camali, oggi ricoverata in una struttura sanitaria per una grave malattia. Riportiamo integralmente il testo da loro fornitoci, con l'intento di rendere omaggio a "Nica" per questo prezioso racconto che ha voluto preparare per lasciare a tutti il segno indelebile della sua vita.
Mi chiamo Domenica Camali, classe 1935 e sono una profuga istriana. Da sempre, tutti mi chiamano “Nica” e all’epoca dei fatti di cui parlerò tra breve, vivevo con la mia famiglia a Neresine, un paese sull’isola di Lussino situata nella parte meridionale dell'arcipelago del Quarnero.
Avevo due fratelli - Eugenio e Antonio - rispettivamente di 5 e di 7 anni ed una sorella, Rita, di 13 anni. Mio padre Domenico Camali era un piccolo armatore, capitano marittimo, proprietario di una piccola nave. Dedito al lavoro e alla famiglia, mio padre non aveva mai svolto nessun tipo di attività politica, né ricoperto alcuna carica istituzionale.
Il 25 aprile 1945 arrivarono a casa i titini a prelevarlo…ricordo ancora il rumore degli scarponi dei soldati che lo vennero a prendere. Da quel giorno mio padre scomparve per sempre… di lui non si ebbero più notizie. Il corpo non fu mai ritrovato, forse venne scaraventato in una foiba…oppure, dato che a Lussino non ci sono foibe, fatto sparire in mare insieme ad altre centinaia di italiani che vivevano sulle isole o sulle coste istriane e dalmate.
Il responsabile della morte di mio padre non lo voglio nominare in questa sede, ma si tratta… purtroppo… di un nostro parente, appartenente al ramo cadetto della famiglia, croato da sempre. Non ho mai sporto denuncia nei suoi confronti non tanto per timore di ritorsioni contro di me, ma per paura di vendette trasversali ai danni di mio figlio e della sua famiglia. Tuttavia, ciò che affermo posso documentarlo in un qualsiasi momento poiché sono in possesso di documenti – per la precisione di alcune lettere - scritte di proprio pugno da quella persona, che confermano le sue schiaccianti responsabilità nell’assassinio di mio padre. Nel 1945 quell’uomo aveva XX anni, ma era già a capo della polizia politica delle isole. Mio padre lo aveva addirittura aiutato a salvarsi dai tedeschi che lo cercavano per arrestarlo. Lo aveva anche sfamato…regalandogli farina e zucchero. Papà era buono ed aveva sempre dato lavoro sia agli italiani sia ai croati, senza discriminazioni di alcun tipo.
Da quel maledetto 25 aprile 1945, mia madre e noi bambini dovemmo affrontare la vita piena di difficoltà e patendo grandi sofferenze ed umiliazioni… che hanno causato profonde ferite nell’anima: ferite che non si rimargineranno mai più. Tuttavia, mio padre era stato lungimirante e, probabilmente allarmato da quello che gli slavi avevano fatto in Istria e Dalmazia (in particolare a Spalato) tra il settembre e l’ottobre 1943, aveva predisposto un piano di evacuazione per noi bambini. L’idea era quella di trasferirci, una volta raggiunta Trieste, presso un collegio di Venezia. Accompagnata da una mia compaesana, la sera del 6 dicembre 1945 ci imbarcammo a Neresine dirette a Trieste…ricordo ancora la bora che soffiava forte. Fu un viaggio davvero difficile tanto che dovemmo sbarcare a Porto Albona. Due dei miei fratelli si erano già messi in salvo da alcuni giorni. A Neresine rimase soltanto mio fratello più piccolo affidato da mia madre a mia nonna materna. Di lì a poco la mamma ritornò a Lussino per prendere anche il bambino più piccolo, ma oramai la situazione era precipitata. I titini le impedirono di uscire dall’isola e per tre anni dovette vivere prigioniera in casa, con la costante presenza di spie sotto le finestre… Per la mamma e mio fratellino furono anni tremendi, carichi di sofferenze, di angoscia e di privazioni… Finalmente nel 1949 riuscirono anche loro ad arrivare in Italia, ma profondamente segnati da quella terribile esperienza. Mia madre visse il resto della sua vita con la pensione riconosciutale per l’attività svolta da mio padre in campo marittimo. Anche i miei fratelli, seppure tra mille difficoltà, si rifecero anch’essi un’esistenza: mia sorella andò a vivere nello stato del Rhode Island, negli U.SA., ed è ancora vivente, mentre Eugenio ed Antonio sono mancati rispettivamente nel 2003 e nel 2007. Pensi che mio fratello Eugenio piangeva come un bambino ogni volta che rievocava quei giorni, ma quando finì la sua esistenza terrena volle avere con sé alcune pietre del giardino della nostra casa di Lussino ed il tricolore italiano…
Nel 1987 tornai in Croazia determinata, più che mai, non tanto a rivendicare le proprietà di mio padre confiscate dal governo slavo, ma per sapere la verità sulla sua fine. Da allora ho intentato nove cause presso il tribunale di Lussino perché pretendo la verità… non tanto per avere un risarcimento danni, ma per avere giustizia. Sono tutte cause che ho portato avanti in prima persona e l’ultima causa è del 2006… ho anche imparato il croato per cercare di comprendere meglio ciò che viene detto e scritto nelle aule di quel tribunale. I croati non si sono mai dimostrati collaborativi, anzi… l’anno scorso, quando mi trovai l’ultima volta di fronte al presidente del tribunale di Lussino, lo sentii domandare a mezza voce: “Ma che cosa vuole ancora questa maledetta italiana?”…ma loro non sanno che io conosco il croato!
Le autorità croate non mi hanno mai aiutato: loro negano, minimizzano, rimandano… L’unico documento che attesta la morte di mio padre è un pezzetto di carta rilasciato dal Comune di Lussino… Il nome di mio padre è citato in un paio di libri: uno del prof. Luzzato Fegiz, l’altro di Padre Rocchi… nulla più. Forse qualche traccia si potrebbe trovare nell’archivio di Pola, ma non me la sento più di andare avanti… Ogni anno devo anche pagare la tassa per la tomba di famiglia (250 kune) altrimenti mi portano via anche la tomba. Delle proprietà di famiglia mi resta la casa di mia madre, da principio requisita dal governo slavo, poi restituita in quanto facente parte di quelle uniche cinquecento case riconosciute agli italiani d’Istria e di Dalmazia.
Durante un mio viaggio a Lussino, verso la metà degli anni Novanta, seppi che il responsabile della morte di mio padre e della rovina della nostra serenità familiare… si trovava con la moglie in Croazia per trascorrere dei giorni di vacanza. Seppi, inoltre, che si era costruito una villa-bunker sull’isola di Xxxxx. Ai tempi del regime di Tito, era stato un dissidente ed era scappato in Xxxxx travestito da frate... A Xxxxxxxx si era rifatto una vita svolgendo un’importante professione con il titolo di xxxxxxx. Grazie ad un nostro cugino, che lavorava per una grande multinazionale petrolifera e che era bene introdotto negli ambienti dei croati che contano, venni a scoprire alcune cose a dir poco sconcertanti sul conto dell’assassino di papà. Oltre a guadagnare parecchi soldi e a vivere indisturbato in Xxxxx, pare che “quella persona” fosse anche in contatto con ambienti croati dediti ad attività condotte non proprio…diciamo… alla luce del sole…. Con la morte di Tito, infatti, era tornato in Croazia da impunito e, all’inizio degli anni Novanta, si era dedicato a raccogliere fondi per sostenere finanziariamente l’imminente guerra della Croazia contro la Serbia. Quando ebbi conferma che si trattava proprio del responsabile della morte di mio padre, trovai il coraggio di affrontarlo viso a viso proprio nella piazza centrale del paese… Dopo essermi accertata della sua identità ed essermi qualificata, gli domandai a bruciapelo: “Che fine ha fatto mio padre!? Quella là è la mia casa! Ricordo ancora il rumore degli scarponi quando lo veniste a prendere… Lei per me è un assassino!”, gli dissi con rabbia. La reazione fu di grande imbarazzo… poi, dopo aver tentato di svicolare da questa situazione assolutamente inaspettata, decise di concedermi un appuntamento per rispondere alle mie domande.
Il luogo dell’incontro fu stabilito da me: ci saremmo visti al porto di Ossero, un paesino di pescatori situato sull'isola di Cherso, dove le case sono individuate soltanto dai numeri civici, per non dare il piacere ai croati di vedere i nomi delle vie scritti nella loro lingua… Quando ci incontrammo domandai ancora: “Perché facesti ammazzare mio padre?” La risposta mi fece rabbrividire: “Perché italiano…perché parlava italiano”. Gli ricordai allora degli aiuti che mio padre gli aveva dato… ma lui, impassibile, disse: “Quelli erano gli ordini del Partito comunista jugoslavo: se io non lo avessi ammazzato, loro avrebbero disposto di ammazzare me…”. Così le bande comuniste di Tito trucidarono ed infoibarono migliaia di persone soltanto perché italiane… secondo un piano programmato di “pulizia etnica”.
Per mio padre assassinato ed infoibato, il 10 febbraio 2007 l’Italia mi ha concesso una pergamena e la medaglia d’oro. Si tratta dell’unico riconoscimento avuto in 62 anni e, secondo le autorità italiane, dovrebbe bastarmi quale risarcimento per tutto quello che io e la mia famiglia abbiamo passato. Purtroppo, nonostante questo riconoscimento, non mi è stata risparmiata neppure la grande amarezza di vedere ancora su un documento ufficiale il mio status di apolide. Questo accadde proprio dieci giorni prima del conferimento della medaglia alla memoria di papà. Mi trovavo all’ospedale Galliera e sulla documentazione per richiedere una tac… risultavo apolide… capisce !?… Ci rimasi malissimo… una gaffe imperdonabile da parte delle autorità italiane che, dopo averci boicottati e snobbati per oltre mezzo secolo, credono di archiviare la tragedia dei giuliano-dalmati con una pezzo di carta e una medaglia…
Da sei anni sto combattendo contro una grave malattia che adesso mi costringe a vivere tra un letto di ospedale e una sedia a rotelle. Non ho più la forza di un tempo per continuare la battaglia contro il muro di omertà tirato su dagli infoibatori della verità… un “muro di gomma” fatto di silenzi complici e di vergognose falsità. Nonostante tutto sono ottimista, perché ci sono ancora molti italiani che si battono per ristabilire la verità storica sulle foibe e sull’Esodo dei 350.000 profughi dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia. Tra i tanti vorrei ricordare F.S. di Genova che, contando soltanto su se stesso e su pochi altri volontari, si sta impegnando a fondo per far si che i tanti marò della Decima Mas - caduti per difendere le terre orientali dalla furia omicida dei comunisti slavi - abbiano oggi una degna sepoltura. Per quanto mi riguarda, desidero soltanto che la mia testimonianza non vada dimenticata.
Genova, 24 agosto 2007
Da tempo desideravo raccontare una vicenda di vita vissuta, non da me, ma da mia madre, alla quale piace ricordare e parlare, ma soltanto di certe cose.
Altre invece preferisce tacerle, come quelle che riguardano i luoghi natii, di cui non parla volentieri, quasi per dimenticare. E questo non è un atteggiamento inconsueto tra i nostri profughi.
Ma qualcosa su quel periodo la mamma l’ha raccontato e io desidero riportarlo. La mamma è nata in un piccolissimo paese dell’isola di Lussino. Un’isola dalmata etnicamente, ma amministrativamente istriana, durante il periodo italiano. Comunque una terra di confine che ha visto nella sua storia transitare una molteplicità di genti.
Neresine, questo il nome della località, aveva poco meno di duemila abitanti al principio della seconda guerra mondiale. In stragrande maggioranza italiani, tutti fervidamente cattolici. Gente che dal mare traeva la vita e che, molto spesso, al mare la sacrificava. Al principio come in tutta l’Italia nord orientale, la guerra non si fece sentire più di tanto. La stessa Regia marina trasferì industrie e cantieri nel tranquillo golfo di Trieste e nella decentrata base di Pola, ove unità nuove e vecchie potevano tranquillamente completare l’addestramento mentre nuove generazioni di marinai e ufficiali completavano la loro preparazione.
A Neresine gli effetti del conflitto si videro inizialmente, per la partenza sempre più intensa, dei coscritti. Ogni mese ne partiva qualcuno. E tutti si conoscevano in quel borgo calcinato dal sole in estate e straziato dalla bora in inverno. Anche i meno giovani iniziarono a partire. Partivano imbarcati sui mercantili verso l’Africa o sui piccoli piroscafi che bordeggiavano la lunga costa dalmata e che rifornivano di continuo, il fronte greco-albanese. Anche la flottiglia neresinotta, piano piano, venne annullata. Oltre quaranta velieri e motovelieri si sparsero per il Mediterraneo svolgendo il loro compito prezioso per la Patria in guerra. Quaranta navi, alla fine della guerra ne rimase solo una galleggiante. Gli equipaggi svuotarono il paese e ben presto non rimasero che donne, vecchi e un po’ di “mularia”. Poche centinaia di persone, compresi i frati del convento francescano e, i tre sarcedoti della Comunità.
L’armistizio, se possibile, aggravò ancora di più la situazione. Molte delle barche superstiti alle distruzioni belliche rimasero separate dalla linea che divise l’Italia in regno del Sud e in Repubblica Sociale. Mio nonno rimase bloccato al Sud. Rivide la famiglia dopo oltre tre anni di separazione. Senza poter spedire nemmeno una lettera o inviare un soldo. E solo i dalmati sanno quanto avara possa essere la loro terra, ricca solo di sassi, di qualche orto strappato alla pietra e di poche pecore e capre. Vennero i tedeschi e, con la fine del 1943, tornarono gli italiani. Un gruppo di uomini della X Mas. Tutti vennero bene accolti. Un po’ di gioventù faceva sentire vivo il paese.
Di partigiani si parlava, ma la loro presenza era limitata a Lussino. Qualche volta sbarcavano di notte, compivano rapide perlustrazioni per controllare su quali forze potessero contare tedeschi e italiani. Poi, senza troppo disturbare, si reimbarcavano. Una volta si udirono degli spari dalle parti del monte Ossero, il principale rilievo dell’isola, ma probabilmente fu solo una scaramuccia. La fame era tanta, tanta quanto è difficile immaginare oggi, ma si andava avanti egualmente. Mia madre non aveva ancora vent’anni nel 1945. A fine aprile, con il crollo del fronte italiano, e la ritirata generale tedesca, Lussino e Neresine restarono isolate aspettando gli eventi. Una ventina di soldati italiani e forse il doppio dei tedeschi, rimasero bloccati in paese. Ogni collegamento con il continente era cessato. I primi a farsi avanti, a quel punto, furono gli esponenti della piccola comunità croata neresinotta.
Avvertivano che stava per giungere il loro momento. I maggiorenti si preparavano a ricevere i “liberatori”. Una mattina, un clamore di uomini e di armi, iniziò ad avvertirsi in paese. Dalla via di Ossero si avanzava una nutrita schiera di partigiani titini. Giovanni Zorovich, dai più conosciuto come “barba Ive”, Antonio Soccolich e Giovanni Soccolich (più noto, chissà perché, come il “Limbertic”), si fecero avanti per ricevere i nuovi venuti. Erano o non erano i principali esponenti dei croati neresinotti? La mamma si trovò per caso ad assistere alla “liberazione” del paese. Si trovava davanti alla casa dei coniugi Cavedoni, lui, Domenico, era il sarto del paese, come la moglie, che accolse i titini con un gesto assai volgare, erano di sentimenti italiani. L’incontro tra partigiani e la delegazione avvenne davanti alla scuola del paese. Vedendo nel gruppo “barba Ive”, che con tanta enfasi riceveva i partigiani comunisti mia madre non potè non pensare a Giovanna, la figlia di questi, che fino a poco prima girava orgogliosamente per il paese con la sua immacolata divisa di Giovane Italiana. Il trapasso dei poteri fu praticamente indolore. Mentre la piccola Nina (diminutivo di Giovanna) correva verso casa, dove l’aspettavano la madre, la sorella e la anziana nonna, pr informarle dell’arrivo dei titini, si udì qualche sparo dalla parte della caserma dei carabinieri, ove si erano asseragliati gli uomini della X Mas. Evidentemente, tentarono una qualche resistenza, subito cessata.
La sera stessa furono rinchiusi prigionieri in una casa vicina alla caserma dei carabinieri dotata di sbarre alle finestre. Tutto il paese li conosceva e, pian piano, donne e ragazzi iniziarono ad avvicinarsi per tentare di confonderli. Quei poveri giovani, attraverso le sbarre, lanciavano biglietti con l’indirizzo delle loro famiglie. Pregavano di comunicare ai loro cari la loro sorte. Uno, addirittura, consegnò un libretto di risparmio al portatore. Chissà se venne consegnato. I partigiani però scacciavano violentemente la popolazione.
Le vicende dei mesi successivi impedirono di compiere la pietosa missione e chissà quante famiglie di Milano e dell’hinterland attesero il ritorno dei loro cari. Quasi tutti infatti venivano da quella zona. Forse, vi era qualche piemontese. Alla sera erano già stati trasferiti. Per un regolare campo di prigionia, dissero. Lo si sperò, ma con senno di poi, non ci credette più nessuno.
Nei giorni e nelle settimane successive, la croatizzazione del paese si fece sempre più evidente. Nelle ore serali, nella sala del Municipio, vennero organizzati dei corsi di mistica marxista, gli “Zastana”. Non era obbligatorio partecipare, ma era senz’altro meglio. Per di più erano in croato e ben pochi lo capivano.
Allo stesso tempo divennero frequenti le serate danzanti. Bisognava in qualche modo conquistare la fiducia dei nativi. Quale miglior espediente della danza. E la cosa ebbe un certo successo. Quella gente, in fondo semplice ed umana, voleva dimenticare gli anni di guerra, nella convinzione che presto tutto sarebbe tornato come prima. Col passare del tempo però, le pressioni politiche si fecero sempre maggiori. Una domenica alla mamma, che da anni cantava nel coro della chiesa, venne impedita tale partecipazione se prima non avesse imparato a cantare in croato. Il croato, dialettalmente, era presente nella lingua parlata da tutti, ma nessuno era in grado di comprendere quello puro. Molti avevano fatto le scuole italiane, anche sotto l’Austria. Queste imposizioni si fecero sempre più pesanti: L’ultima messa cui mia madre partecipò fu quella di Natale del 1945. Ancora oggi la ricorda. Venne cantata in latino del Perosi, a tre voci. Poi, l’inizio della fine. Si cominciò a parlare di “opzione” e nella primavera del 1946, mentre mia zia già aveva “optato”, sposando un croato e trasferendosi in Pola, ancora italiana, anche mia madre, mia nonna e mia bisnonna optarono, nella scuola del paese, ove era stato allestito una specie di seggio elettorale.
Ai primi di maggio del 1946, approfittando di un viaggio a Civitavecchia di una parente, mia nonna la pregò di portare con sé anche la “piccola”, mia madre.
Da donna pratica quale era, la nonna vide al di là del naso. Non era igienico, specialmente per una donna così giovane, restare in un paese in cui l’ordine era affidato a milizie raffazzonate che conoscevano, in pratica, il solo linguaggio delle armi. Il viaggio durò tre giorni e il venti maggio del 1946, la mamma giunse a Roma, accolta da due zie trasferitesi nella capitale già da alcuni anni. Doveva rimanervi, nelle sue intenzioni, circa un mese. Ancora ci vive, sposata, con due figli e due nipoti. Un terzo in arrivo. La nonna la raggiunse dopo sei mesi, approfittando, fortunosamente, dell’esodo da Pola, dove si era recata per assistere la figlia maggiore in occasione della nascita della mia prima cugina croata, nel novembre del 1946.
Una storia che nulla ha di differente da quella di migliaia di altri profughi, ma che è valso la pena di raccontare perché anch’essa costituisce una testimonianza dell’esodo.
Mi chiamo Nives Rocchi. Sono nata il 5 agosto 1920 a Neresine, nell’isola di lussino. Lussino, la nostra bellissima isola ricca di splendide pinete, è oggi meta di migliaia di turisti stranieri ed italiani: molti di questi non sanno che quest’isola, fino a sessanta anni fa, era italiana.
Mi sono sposata il 27 ottobre 1946 con Oscar Piccini di Lussinpiccolo (il figlio della Bjela). Nel mese di settembre del 1947 è venuto alla luce il mio primogenito Matteo. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, a seguito del trattato di pace del febbraio 1947, l’isola in cui sono nata e vissuta è stata ceduta, come tutta l’Istria, Fiume e Zara, alla Yugoslavia.
Con l’arrivo degli yugoslavi sono iniziate le persecuzioni nel tentativo di sradicare la presenza italiana e di slavizzare ad ogni costo quelle terre. In un clima di paura ci imponevano il loro regime, la loro lingua, la loro cultura e le loro scuole. All’età di sette anni a mio figlio, che non conosceva una parola di serbo-croato, è stata imposta la scuola yugoslava.
La gente spaventata, ha cominciato ad andare via. Ci hanno assicurato, nel rispetto del trattato di pace, che dal 1948 chi si sentiva italiano poteva optare ossia scegliere di ricongiungersi alla madre patria italiana purchè di lingua d’uso italiana.
Nel 1948 su novemila e cinquecento abitanti dell’isola, novemila chiedono di andare via. Ma il trattato di pace ha dato facoltà al governo yugoslavo di stabilire chi avesse o meno l’uso della lingua italiana. E qui ha iniziato la beffa. Il disegno politico di allontanare gli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia determina un esodo di massa ed uno spopolamento del territorio che significano la perdita di forza lavoro e di personale specializzato e soprattutto una sconfitta del regime di Tito. Cosi hanno fatto di noi ciò che volevano.
Hanno permesso di andare via solo ai vecchi o a chi faceva comodo a loro. Alla mia famiglia, cosi come a tante altre, dal 1948 al 1951 per quattro volte hanno respinto le richieste di andare in Italia con la motivazione che parlavamo la lingua serbo-croata che in realtà non conoscevamo.
In quegli anni hanno cominciato a perseguitare mio marito Oscar che lavorava come elettricista al cantiere navale di lussino: volevano costringerlo a fare la spia. Spesso la notte veniva prelevato dalla polizia politica e, alla ricerca dei cosiddetti “nemici del popolo”, costretto anche sotto tortura a fare i nomi di colleghi di lavoro che nulla avevano commesso.
Da qui la decisione, come tanti, di scappare con ogni mezzo. L’occasione si è presentata nel dicembre del 1951. Di notte, da un’insenatura sotto il monte Ossero, con una barca a vela, assieme ad altre 12 persone tra le quali un bambino di tre anni, mio marito è riuscito a scappare. Sono arrivati nel porto canale di Pesaro alle prime luci dell’alba del 6 dicembre 1951, finalmente liberi.
Mio marito era salvo. Io sono rimasta sola con il bambino di 4 anni. Ho fatto di tutto per ricongiungermi a lui, ho scritto persino una supplica a Tito, ma il diritto di andare in Italia mi è stato sempre negato. Anche per me e mio figlio l’unica strada rimaneva la fuga.
Nel 1953, mio marito, che si trovava ad Ancona per lavoro, organizzò una fuga: due anconetani (di cui uno oggi ancora vivo) con un peschereccio dovevano prelevarmi in un punto concordato lungo la costa istriana vicino a Pola. Causa il vento e il mare mosso la cosa non riuscì. I due anconetani furono individuati dalle motovedette yugoslave ed arrestati. Confessarono tutto ed io finii in prigione.
Dopo un mese di prigionia in condizioni disumane, istituirono contro di me un processo farsa. Mi dissero: “Se ti vuoi salvare e fare pochi mesi di carcere, durante il processo devi accusarti pubblicamente di essere una reazionaria e di non avere mai optato per l’Italia.” Ho accettato. Sola e con un bambino di pochi anni non avevo scelta.
Scontati tre mesi di carcere terribile. Nel 1955, dopo altre richieste di poter tornare in Italia, sempre respinte, mi dissero che come italiana non avrebbero mai potuto concedermi tale permesso. L’unica possibilità era di chiedere la cittadinanza yugoslavia e da cittadina yugoslava chiedere il lasciapassare per l’Italia.
Accettai anche questo. Divenni contro la mia volontà cittadina yugoslava. Feci la domanda e ancora una volta mi fu respinta. Ad un secondo tentativo, quando ormai non avevo più speranze, grazie all’aiuto di una persona molto influente che aveva compreso il mio dramma, la mia richiesta fu finalmente accolta.
Così, nel 1955, dopo quattro anni di forzata separazione, la mia famiglia potè ricongiungersi alla madre patria Italia. Un anno dopo nacque il mio secondogenito Giuliano.
Ci siamo stabiliti ad Ancona, e lì, con sacrifici, ci siamo rifatti una vita, liberi ed italiani, ma con nel cuore una struggente nostalgia delle nostre terre abbandonate.
Vivevo a Ossero, un paese sull’isola di Cherso, da secoli legato alla storia di Roma prima, poi a quella della Repubblica di Venezia. Il leone di San Marco resta ancora inciso sulle sue mura.
Ossero con il suo ponte girevole sulla Cavanella, collega le isole di Cherso e Lussino, chiamate le perle dell’Adriatico.
Ossero, dove da sempre si è parlato e scritto in latino o in italiano. La sua popolazione, in maggior parte marittima, è sempre vissuta in perfetta armonia.
In seguito alla prima guerra mondiale, con la sconfitta dell’Impero Austro-Ungarico, l’Istria e le isole del Quarnero vennero assegnate all’Italia, mentre la Dalmazia con le rimanenti isole vennero assegnate al nuovo Regno di Yugoslavia. Da allora la Yugoslavia ha sempre aspirato ai territori annessi all’Italia.
La mia infanzia, trascorsa a Ossero, non è stata un’infanzia signorile, tuttavia felice e spensierata.
Con l’alleanza dell’Italia alla Germania, nella seconda guerra mondiale e con la loro sconfitta da parte delle forze alleate, per noi tutto cambiò.
Era il maggio del 1945, ultimi giorni di guerra, quando le forze comuniste di Tito, che combattevano con le forze alleate, occuparono le nostre Isole e l’Istria intera, entrarono da noi dichiarandosi, o meglio ancora, proclamandosi liberatori. Ci portarono quella libertà che a noi costò un altissimo prezzo, derubandoci di tutto ciò che avevamo di più caro. Soprattutto ci privarono della nostra vera libertà. Dal primo giorno il nostro stile di vita, povero ma felice ed orgoglioso fino allora, sparì. Mio padre si ammalò e nessuno sapeva dirci di che cosa soffriva. Dottori all’ospedale di Lussino non ce n’erano più; quelli che non erano riusciti a fuggire, erano stati uccisi o fatti sparire perché erano considerati intellettuali, e gli intellettuali sotto il regime comunista non venivano tollerati, erano considerati reazionari.
Il sei giugno del 1945, a soli 50 anni, mio padre morì. Le cose andavano peggiorando continuamente, la gente non era più padrona di fare ciò che voleva, era costantemente sorvegliata, non ci si poteva fidare di nessuno.
Un giorno mio zio, a Neresine (il paese vicino a Ossero) camminava verso casa, una macchina dell’OSNA (la Polizia Segreta) lungo la strada gli si fermò accanto, lo fecero salire, e di lui, da quel giorno, non si è mai più saputo nulla: sparito!
La popolazione cominciò a fuggire. Tutti verso l’Italia, con i giovani in prima fila. All’inizio si fuggiva senza molta difficoltà, poi le cose cambiarono in peggio: le frontiere vennero chiuse, però in una o in un’altra maniera la gente continuava ad andarsene; molti vennero presi e incarcerati, le loro famiglie venivano deprivate di quelle misere razioni di cibo assegnate alla popolazione così sottoposte alla fame; altri ancora, dopo presi, sparivano per sempre.
Della mia famiglia mio fratello Miro e mio cognato Silvio, disertarono fuggendo dalle file dei soldati di Tito, dove erano stati presi con forzato reclutamento. Mia sorella Anna era fuggita in Italia col marito e il figlio Adriano di pochi mesi. Mia sorella Etta aveva sposato un ex soldato italiano ed erano andati in Italia prima che chiudessero le frontiere. Io allora avevo 17 anni, ero rimasto solo con mia mamma e mia nonna paterna. Ho dovuto occuparmi della campagna, delle pecore, dei vigneti e di tutto ciò che il lavoro di un contadino richiedeva. Avevamo una seconda abitazione in campagna, a Lose, a circa sei chilometri dal paese ed un cavallo che era diventato per me il mio fedele compagno di lavoro.
Questo per me era tutto nuovo in quanto, fino a quel tempo, io imparavo a fare il mestiere di falegname nel laboratorio del padre di Dolores, non sapendo allora che un giorno lui sarebbe diventato mio suocero.
A Ossero un paese di 500 abitanti, nel 1949 ne erano rimasti un centinaio, di questi la maggioranza vecchi e bambini, di uomini tra i 18 e 35 anni eravamo in due, io e un mio vicino, due anni più vecchio di me: Antonio. A Verin, un villaggio di campagna ce n’erano due: il mio amico Mario e suo cugino Nino. Mario aveva i miei anni , suo cugino qualcuno più di noi. Le cose in paese continuavano a peggiorare di giorno in giorno. Le frontiere erano rigorosamente sorvegliate, la sola maniera per poter fuggire era con una barchetta da pesca attraversando l’Adriatico.
Il governo yugoslavo aveva imposto il reclutamento al servizio militare a tutti i giovani del territorio occupato, io avevo venti anni, il mio turno era prossimo. Io e il mio amico Mario avevamo deciso di trovare un modo per scappare; io però avevo un grande pensiero per mia mamma che avrei dovuto lasciare sola (mia nonna era deceduta l’anno prima). Mia mamma in quel periodo non si trovava in un buon stato di salute, e poi io nel frattempo mi ero fidanzato con Dolores. Queste erano due cose che rendevano la mia fuga più difficile. Un giorno mia mamma mi disse: ”guarda che se non scappi ti prenderanno per il sevizio militare ed io rimarrò sola ugualmente”. Così ho deciso che era l’ora di “tagliar la corda” come si diceva da noi.
Io, Mario e suo cugino eravamo contadini, di barche non ne avevamo e per attraversare l’Adriatico ce ne voleva una.
Qui dunque comincia la nostra avventura!
Era una splendida giornata del tardo Febbraio 1949, era di domenica pomeriggio, dopo pranzo uscii di casa, che era quasi in riva vicino al mare; scesi ad ammirare quel nostro magnifico mare blu, c’era una leggera brezza di maestrale che mi soffiava in faccia, mentre stavo ammirando quello spettacolo, Antonio, il mio vicino di casa, il solo altro giovane del paese, mi si avvicina e mi dice: “che magnifica giornata per alzare la vela e partire!” Io lo guardai e non dissi nulla, fidarsi non era facile, però lui era un pescatore e aveva una barca. Mentre mi allontanavo mi girai verso di lui e gli dissi: “parli sul serio?” Lui mi rispose: “si!” Io continuai ad allontanarmi e non dissi più nulla. Qualche giorno dopo, quando mi incontrai con Mario gli raccontai di quanto mi era accaduto. Lui dopo aver parlato con suo cugino mi disse che loro erano d’accordo e che alla prima buona occasione avremmo dovuto parlare con Antonio.
Era il periodo di carnevale, nei paesi si organizzavano alla domenica serate danzanti. Fu esattamente una sera durante una di queste danze, organizzate nel nostro paese, che si presentò l’occasione per noi di agire. Durante la serata in un momento che ci siamo trovati da soli io gli dissi: “Antonio, guarda che se quel giorno in riva eri veramente serio, questa notte dopo il ballo, alle due precise vieni a casa di Mario, la porta sarà aperta e la casa sarà al buio, noi saremo lì e parleremo di che cosa si potrà fare.”
La notte, finito il ballo, ognuno se ne andò per i fatti suoi, come si faceva sempre, poi piano e di nascosto, io sono andato a casa di Mario, dove, al buio, lui e Nino mi aspettavano, facendo attenzione che nessuno sospettasse qualcosa. Senza mai accendere il lume, abbiamo atteso l’ora. Un po’ prima delle due ci siamo nascosti in giardino, per accertarsi di non essere stati spiati ed essere presi di sorpresa. Alle due in punto arriva Antonio ed entra nella casa buia, noi tre abbiamo aspettato un po’ per accertarsi che nessuno lo avesse seguito per prenderci in trappola. Quando poi siamo entrati, senza mai accendere il lume, stabilimmo un incontro per il mercoledì successivo in un bosco a sei chilometri dal paese e che tutti e quattro conoscevamo il punto preciso. Quindi ci salutammo raccomandandoci nel frattempo l’assoluto silenzio e completa indifferenza per non dare alcun sospetto.
Il mercoledì seguente, come stabilito, ci siamo incontrati raggiungendo il luogo uno ad uno da differenti direzioni per non insospettire nessuno.
In quei giorni aveva cominciato a soffiare bora, e quando soffia blocca tutto e alle volte dura anche 15 giorni. Noi sapendo bene che dopo una burrasca di bora segue sempre un periodo di bel tempo, decidemmo che il primo giorno di calma doveva essere il giorno della fuga. Antonio come pescatore aveva una bella barca adatta per il nostro obiettivo. Lui ci disse che avrebbe chiesto un permesso di pesca per quella sera e avrebbe preparato la barca con remi e vela. Io avevo a casa una bussola buona per la navigazione, e ognuno di noi avrebbe dovuto portare in uno zaino il minimo necessario da vestire e da mangiare. Il permesso di pesca era necessario, e come già detto, Antonio avrebbe provveduto per quella notte: per poter uscire dalla baia e attraversare il canale della Cavanella per andare a pescare dalla parte del mare aperto. Antonio era un pescatore fidato e quindi non si prevedeva nessun ostacolo. Una guardia era appostata notte e giorno sul canale per garantire che nessuno uscisse senza permesso.
Ci lasciammo promettendo di non trovarci più assieme e di non dirlo a nessuno, tranne alle nostre mamme. Lo stesso giorno io lo dissi a mia mamma, lei il giorno dopo preparò il mio “rusak” (sacco a spalla tipo zaino), la bussola la tenni nascosta fino all’ultimo momento. Dissi anche alla mia fidanzata che sarei scappato, ma non le dissi ne come ne quando. I giorni passavano e la bora continuava a soffiare, fino a che una mattina mi svegliai e non soffiava più.
Quella mattina il sole splendeva, mi alzai, scesi in cucina per la colazione (non so perché… e per qualche motivo avevo perso l’appetito), dissi alla mamma: “credo che oggi sarà il giorno.” Cominciai a girare per casa, mi sentivo nervoso. Con la coda dell’occhio vedevo la mamma che di tanto in tanto passava la man sopra gli occhi per asciugarsi le lacrime. Ad un tratto le chiesi: “vuoi mamma che rinunci?” Lei mi rispose: “No! No! assolutamente No! te ne devi andare! Io me la caverò, vedrai.” Uscii di casa e andai a prendere il cavallo per far vedere che andavo in campagna a lavorare. Uscendo incontrai Antonio con due remi sulle spalle, lui mi fece l’occhiolino e mi disse: “dopo una burrasca di bora la pesca sarà buona!” Ho capito bene quello che mi voleva dire, si stava preparando per la sera. Rientrai a casa e dissi a mia madre: “è giunta l’ora!” Andai a prendere il cavallo e caricai il mio sacco a spalla, abbracciai la mamma e la salutai, sapendo bene che forse non l’avrei rivista mai più. Non salutai Dolores, la mia fidanzata, chiesi alla mamma di dirglielo il giorno dopo.
Montai a cavallo e me ne andai. Quando raggiunsi la casa di campagna era già pomeriggio. Mangiai molto poco, come ho già detto avevo perso l’appetito. Lasciai il cavallo nel luogo vicino dove c’era la stalla, quel giorno gli diedi del fieno in più da mangiare e gli dissi addio. Il cavallo mi era molto affezionato, si lavorava insieme tutti i giorni, lui sentì molto la mia mancanza, la mamma mi disse poi che dopo la mia fuga mangiava molto poco, camminava in giro nitrendo spesso, come se mi cercasse. Tanto è vero che dopo quattro mesi morì.
Io presi il mio zaino e mi misi a camminare attraverso le campagne per raggiungere Verin il villaggio del mio amico Mario e di suo cugino che si trovava ad una distanza di circa quattro chilometri. Raggiunsi il luogo verso le tre del pomeriggio, mi presentai a casa di Mario: sua mamma si trovava da sola, la salutai e le chiesi dov’era Mario, in risposta lei mi chiese: “è giunta l’ora?” Io le risposi: “Si!” Allora mi disse dove lui si trovava, quindi la pregai di preparare le sue cose, che andavo a prenderlo.
Quando Mario mi vide capi che era giunta l’ora. Suo padre, stavano lavorando assieme, gli chiese di che cosa si trattava, Mario glielo disse, lui non sembrò sorpreso, certamente sua moglie l’aveva già informato delle nostre intenzioni. Suo padre allora ha voluto darci dei consigli, io l’ho assicurato che i nostri piani erano stati ben preparati; la madre intanto stava preparando le cose necessarie, il padre però, lasciato il lavoro, ha voluto accompagnare il figlio a casa per vederlo partire. Mario disse che suo cugino lavorava lì vicino e così siamo andati a prendere pure lui. Quando abbiamo raggiunto Nino, lui ci disse: “non ho detto nulla a mia mamma, ora cosa faccio?” Noi gli abbiamo risposto:”adesso a mai più, decidi tu!” Lui allora decise di tornare a casa con noi. Le loro case erano adiacenti una all’altra. Quando lui disse alla mamma di che cosa si trattava, lei cominciò a piangere, ma non si dimostrò contraria alla sua fuga, sapeva bene che per noi giovani, lì non c’era nessun futuro. In breve tempo entrambi avevano le loro poche cose pronte.
Si stava facendo tardi, noi dovevamo raggiungere il punto prestabilito sulla costa del mare prima del buio. Io uscii di casa, volevo che loro potessero salutare i genitori da soli, sapendo che pure per loro poteva essere l’ultima volta.
Da quell’istante cominciò per noi la via verso l’incognito!
Per raggiungere il punto prestabilito dovevamo percorrere una distanza di circa sei chilometri tra rocce e cespugli, per non farsi vedere da nessuno. Dovevamo attraversare la strada principale dell’isola. Se qualcuno ci avesse visti tutti i nostri piani sarebbero falliti. Così, procurandosi un po’ di graffi fra rocce e cespugli, allorquando raggiungemmo il punto prestabilito era già l’imbrunire. Dall’altura soprastante vedemmo giù nella valle Antonio con la sua barca che stava attendendo le sue reti. Si, avevamo paura ed eravamo nervosi, però eravamo altrettanto determinati a raggiungere il nostro obiettivo. La nostra libertà!
Si faceva tardi e buio: erano circa le nove di sera quando, scendendo sulle rocce in riva al mare, con un fischio avvertimmo Antonio che eravamo lì. Lui con la barca raggiunse la riva e ci chiese: “Pronti?” Noi assieme rispondemmo: “Si, lo siamo!”
Ci imbarcammo prendendo i nostri posti, remi in mare, su la vela,e via, lasciando reti e tutto in mare.
Il nostro percorso non cominciò come previsto, d’improvviso un vento forte cominciò a soffiare dalla valle, erano gli ultimi sospiri della famosa bora che quando si sveglia sbuffa veramente. Le creste delle onde entravano nella barca, uno di noi fermò di remare per scaricare con un secchiello l’acqua che entrava a bordo. Dopo un po’, come succede sempre, allontanandosi dalla costa e usciti dalla valle il vento cessò ma le onde, che continuano quando il vento muore, facevano traballare la barca e ci rendeva quasi impossibile vogare. La vela sbatteva tanto da doverla ammainare, ciò ci rese indecisi sul da farsi. Qualcuno di noi aveva suggerito di ritornare indietro, a quel punto Antonio disse: “indietro non si può ritornare perché mi hanno dato il permesso fino alle undici e ora sono le dieci e mezza, dunque dobbiamo proseguire.”
Grazie a Dio, una volta che ci fummo allontanati dalla costa, le onde scomparvero e un venticello di maestrale cominciò a soffiare, alzata la vela e continuando a vogare raggiungemmo una buona velocità di circa sei miglia all’ora.
Volevamo fare almeno 40 miglia per raggiungere acque sicure e allontanarsi dalle isole per non essere scorti dalle guardie costiere yugoslave le quali pattugliavano continuamente il mare e non avrebbero esitato di entrare nelle acque territoriali italiane se ci avessero avvistati. Dovevamo quindi allontanarci il più possibile per non farci vedere. Certamente avevamo molta paura che ci potessero prendere, Nino che si trovava a vogare il primo a prua, ne aveva tanta che di tanto in tanto prendeva sonno vogando, dovevamo continuamente incitarlo a vogare. Nessuno creda di poter sapere quale reazione può fare la paura!
Nel frattempo il vento si manteneva buono ed in nostro favore, si navigava molto bene, la bussola ci aiutava a mantenere la buona direzione, si vedevano le sagome delle nostre isole con il monte Ossero allontanarsi sempre più.
Verso il primo mattino, era ancora buio. calcolavamo di essere a circa trenta miglia dalla costa delle isole, cioè a circa metà percorso nell’Adriatico, al confine tra Italia e Yugoslavia. A est le prime luci dell’alba iniziavano ad apparire quando in distanza verso nord avvistammo una luce rossa che significava l’avvicinarsi di una nave. Non si poteva, a causa del buio, distinguere di che tipo di nave si trattava. Osservando questa luce rossa, che avevamo scorto a nord di noi, notammo che dopo un po’ aveva cambiato colore ed era diventata verde, poi rosso nuovamente, poi verde ancora, questo significava che la nave cambiava continuamente la sua direzione. Pensammo allora: stanno cercando noi! Che cosa fare? Se era una nave pattuglia, eravamo finiti, fu il nostro pensiero immediato, e più che si guardava più eravamo convinti che cercavano proprio noi. A quell’ora la nostra posizione era approssimativamente sulla rotta delle navi mercantili che dall’alto Adriatico scendevano verso il Mediterraneo. Ci siamo detti allora: che fare? Avevamo due scelte: una era di ammainare la vela, riempire la barca di acqua ed aspettare che la nave passasse, poiché per vedere un oggetto galleggiare a livello d’acqua in distanza non è facile, poi dopo il passaggio della nave bisognava vuotare la barca, ma con la vela e tutto bagnato avremmo perso troppo tempo e con la luce del giorno ci avrebbe reso visibili da lunga distanza per le guardie yugoslave. La seconda scelta era quella di continuare su la nostra rotta e vedere cosa succedeva. Si scelse la seconda delle due possibilità.
Con lo schiarirsi del buio della notte si vedeva la nave misteriosa avvicinarsi sempre più. Ad un certo punto potemmo distinguere che si trattava di una nave mercantile. Per quale ragione ci faceva vedere le luci di differente colore non lo sapremo mai, forse il timoniere di tanto in tanto si addormentava e perdeva il controllo. Noi ad un certo punto dovemmo deviare la direzione della nostra barca per non scontrarci con la nave, tanto eravamo vicini. Quando abbiamo visto il nome della nave “CITTANOVA”, una nave italiana, ci siamo alzati in piedi gridando e agitando le braccia e chiamando. Sapevamo che era comandata dal Capitano Ottoli Gaudenzio che noi tutti conoscevamo in quanto osserino e mio vicino di casa, sua moglie Caterina viveva ancora in paese. La nave non si fermò, passando a cinquanta metri davanti a noi proseguendo nella sua rotta. Allora ci sedemmo disperati, delusi e inerti. Erano passati circa cinque minuti, che a noi sembrarono un’eternità, la nave, che era già distante, d’improvviso cominciò ad accostare e ritornare indietro, noi allora ci abbracciammo di felicità:
Ci avevano visti! Eravamo salvi!
La nave si avvicinò, il Capitano era sul ponte che dava gli ordini per la manovra, noi lo chiamavamo per nome, ma lui ci rispose: “non vi conosco! Chi siete?” Ci ordinò di accostarci alla nave; una volta accostati diede ordine di abbassare la gru e a noi disse di assicurarsi bene, quando fummo agganciati disse: “tirateli su!” E lui si ritirò nella sua cabina dicendo al suo equipaggio: “occupatevi di loro!” Ci accompagnarono in una cabina e ci dissero di riposare. A noi sembrò strano che il Capitano non avesse voluto parlarci. Noi però eravamo ugualmente felici sapendo di essere sani e salvi.
Tra i marinai di bordo c’era pure suo nipote Nino, un giovane chersino, che noi conoscevamo ancora da casa, lui entrando in cabina ci disse: “venite mio zio vuole vedervi.” Entrati nella sua cabina ci accolse e ci salutò da quel uomo che noi conoscevamo. Ci diede del buon caffè, da mangiare e bere, una grazia di Dio che noi non avevamo più visto dalla fine della guerra. Poi ci disse: “ascoltate, le leggi marittime dicono che io dovrei avvisare le Autorità locali o portarvi al porto più vicino in Italia, vorrei però chiedervi una cosa: vado in Sicilia e vorrei portarvi lì, voi sapete che mia moglie vive ancora a Ossero e non vorrei che le Autorità locali pensino che noi eravamo d’accordo per l’incontro e si vendicassero sulla mia famiglia.” La nostra risposta fu semplice: “ci porti dove vuole,noi ora siamo salvi.”
Il nostro viaggio fino alla Sicilia fu tranquillo senza nessun inconveniente. Il mare era calmo e il sole splendeva, avevamo da mangiare e bere a volontà. Il viaggio durò quattro giorni.
Nel frattempo, come poi mi raccontarono, a Ossero le cose andarono così: la sera della fuga il cambio delle guardie non fu avvertito che Antonio doveva rientrare dalla pesca alle 11 p.m. così nessuno badò al caso. Alle otto del mattino seguente il sergente delle guardie che aveva approvato il permesso di pesca si recò a casa di Antonio per comperare del pesce. La mamma di Antonio si dimostrò tanto preoccupata dicendo al sergente che suo figlio non era ancora rientrato, che certamente gli era accaduto qualcosa. Il sergente soltanto allora si accorse di che cosa si trattava. Di corsa ritornò alla caserma dando l’allarme, ma ormai era troppo tardi, noi eravamo sani e salvi navigando verso la Sicilia.
Per mia mamma, per la mia fidanzata e per le famiglie dei miei compagni cominciò un periodo di grande ansietà. Nessuno sapeva nulla, nessuno aveva inteso nulla su di noi, nulla sulla nostra sorte e dove eravamo finiti. I comunicati dei notiziari italiani non avevano mai menzionato nulla su di noi. Infatti il Capitano non aveva voluto comunicare la notizia con la radio di bordo per paura di essere intercettato dalle vedette yugoslave che avrebbero potuto abbordare la nave in navigazione e prelevarci.
La mattina seguente, di domenica, Dolores seppe da mia mamma che la notte precedente io ero scappato, le disse di ritornare a casa e di agire come se nulla fosse accaduto e di rimanere calma. Qualche minuto più tardi i soldati si recarono a casa mia e chiesero a mia mamma dov’ero! Lei aveva una pentola sul fuoco e stava cucinando il pranzo domenicale, e disse loro: “mio figlio ieri è andato in campagna per lavoro, oggi ritornerà per la Messa, io sto cucinando il pranzo.” Non soddisfatti della risposta andarono a casa della mia fidanzata a chiedere se sapesse dov’ero. Lei, calma, gli rispose: “non so, ora quando vado a Messa lo vedrò!”
Naturalmente quella domenica a Messa di noi quattro, non c’era nessuno.
Così in paese già tutti immaginavano che eravamo fuggiti, ed era quello il motivo per il quale i soldati correvano in giro per il paese senza nessuna meta, come dei polli con la testa tagliata.
Passarono dei giorni e di noi nessuna notizia. I soldati della guarnigione cominciarono a dire che ci avevano presi, che avevano affondato la barca e che noi eravamo tutti morti.
Con il passare del tempo, i nostri famigliari cominciarono a credere che ci fosse del vero su quanto andavano dicendo.
Nel frattempo, cioè quattro giorni dopo, noi avevamo raggiunto il porto di Catania in Sicilia, la destinazione originaria della nave. Il Capitano aveva immediatamente segnalato alla Capitaneria di Porto che aveva a bordo quattro rifugiati politici, raccolti in mare durante la navigazione. La Polizia, informata dalle Autorità portuali, si presentò a bordo e ci prese in consegna.
Prima di lasciare la nave, avevamo chiesto al Capitano Ottoli di inviare un telegramma alla nonna di Mario al suo villaggio. Avevamo scelto lei che aveva più di ottant’anni e abitava con i genitori di Mario, pensando che a lei, essendo una vecchietta, non avrebbero fatto nulla per vendicarsi contro di noi. Sul telegramma si diceva soltanto: "Siamo arrivati a destinazione sani e salvi, segue lettera".
La Polizia ci rinchiuse in una camera di sicurezza perché non credevano alla nostra storia. La cella era fornita di un grande tavolaccio pendente che serviva da letto e da sedia, c’era un secchio di legno con acqua potabile ed un altro che serviva da gabinetto, non c’erano né coperte né cuscini.
Ci sottoposero ad un intenso interrogatorio prima di aver creduto che stavamo dicendo la verità. Avevamo dato loro gli indirizzi dei nostri parenti e famigliari dove volevamo andare. Io andavo da mia sorella a Marghera, Mario da sua zia a Mestre, Antonio a Venezia e Nino a Genova da sua sorella. Intanto ci assegnarono un agente speciale che doveva occuparsi del nostro caso. Per cibo ci davano due volte al giorno pane e acqua. Dopo due giorni l’agente arriva con una (detta da lui) buona proposta. Poiché non sapeva quanto ci sarebbe voluto per verificare la nostra storia e poiché in quella cella stavamo male ci proponeva di trasferirci nelle carceri giudiziarie di Catania, lì avremmo avuto il nostro letto, 3 pasti al giorno, doccia e due ore al giorno di aria aperta in cortile. Ci siamo guardati e ci siamo detti: una bella proposta, che fine avremmo fatto? In ogni caso certamente sarebbe stato meglio di lì e quindi accettammo. L’agente aveva ragione: trovammo tutto quello che ci aveva promesso!
Nel frattempo a Ossero, al nostro paese, i famigliari non sapevano ancora nulla di noi. Il telegramma era arrivato di lunedì, dieci giorni dopo la nostra partenza. Il postino che distribuiva i telegrammi aveva deciso che non sarebbe andato al villaggio di Mario per portare il telegramma ma lo avrebbe consegnato la domenica successiva quando venivano in paese a Messa. Così passarono altri sei giorni. Complessivamente trascorsero quindici giorni prima di sapere che eravamo sani e salvi. Potete immaginare quali angosce e quali pensieri avevano provato i nostri parenti in quei giorni. Poi, finalmente hanno potuto essere felici nell’apprendere che ce l’avevamo fatta ed eravamo salvi e liberi dall’incubo dei titini.
Per noi, dopo una settimana in carcere tra i banditi siciliani (era il periodo del bandito Giuliano…) venne l’agente e ci disse che era stato tutto verificato e che dal giorno seguente eravamo liberi e ci avrebbe accompagnato al treno e con un lasciapassare della Polizia avremmo potuto raggiungere le nostre destinazioni, dove saremmo dovuti rimanere sotto la loro protezione e entro una settimana avremmo dovuto presentarci alle Autorità locali per ulteriori istruzioni.
Il mattino seguente ci accompagnarono al treno in partenza verso il nord Italia. Noi tutti quattro, da quando eravamo partiti da casa, non ci eravamo cambiati di panni ne ci eravamo fatta la barba, potete immaginare la nostra presenza: eravamo come veri avanzi di galera! Tanto è vero che al primo passaggio del controllore lui ci disse: “voi con il lasciapassare della Polizia non potete viaggiare su questo treno, la prossima fermata dovete scendere!” E così è stato, alla prima fermata ci costrinse a scendere nonostante tutte le nostre proteste; avevamo qualche lira in tasca che avevamo portato da casa, per procurarci qualcosa da mangiare. I treni non erano frequenti, ma salivamo sul primo che arrivava; comunque fino a Roma ci hanno fatto scendere tre volte ancora. A Roma salimmo su un treno direttissimo Roma-Bologna-Mestre-Venezia. Ancora una volta, arrivato il controllore ci disse che su quel treno non potevamo viaggiare e, giunti a Bologna ci fece scendere come promesso. Lì presente, in quel momento, si trovava il Capostazione e avendo visto che nonostante le nostre proteste il controllore ci mise giù dal treno, chiese quale era il problema e noi, in poche parole, gli raccontammo la nostra avventura del viaggio. Allora lui, tutto indignato verso il controllore ci fece salire dicendo che se ci avesse dato ancora fastidio se la sarebbe vista con lui. Nino, a Bologna era rimasto a terra perché lui andava Genova, mentre noi tre abbiamo proseguito per Meste Venezia, finalmente indisturbati.
Dopo tre ore siamo arrivati a Mestre, io e Mario siamo scesi, era la nostra destinazione, Antonio proseguì da solo fino a Venezia. Dopo tre giorni di viaggio in treno, finalmente eravamo arrivati. Ho salutato Mario, che andava sa sua zia, però sapevo che ci saremmo visti presto, perché eravamo vicini. Mai sorella abitava a circa tre chilometri dalla stazione di Mestre, avevo l’indirizzo, chiesi informazioni e mi avviai a piedi.
Potete immaginare in quali condizioni mi trovavo: non mi meravigliavo che per strada tutti mi guardavano quando passavo. Mia sorella abitava al secondo piano di una casa e lavorava da sarta, aveva una ragazza che lavorava da lei per imparare il mestiere. Quando giunsi, suonai il campanello alla sua porta, lei mi vide dalla finestra del secondo piano, chiamò la ragazza e gli disse: “prendi questi spiccioli e vai giù alla porta c’è un mendicante e spediscilo per la sua strada!” potete immaginare come ero ridotto: nemmeno mia sorella mi aveva riconosciuto. Quando poi ha realizzato che ero suo fratello è corsa giù ci siamo abbracciati e abbiamo pianto insieme: era pianto di gioia!
Il mio viaggio finalmente era finito, ero stanco, sporco, affamato, esausto ma felice e soprattutto “LIBERO”!
Questo è un episodio della mia vita che io chiamo:
“il mio volo verso la libertà”
In realtà la mia vera liberta l’ho trovata qui in Canada dove ho vissuto felice sin dal 4 luglio 1951. La mia fidanzata Dolores mi ha raggiunto il 23 dicembre 1952 ed il 17 gennaio 1953 mi disse: “si, voglio essere tua moglie”. Oggi 55 dopo siamo sempre assieme e felici.
Abbiamo un figlio Mike, sposato con Jennifer e tre nipoti:
Oliver 16 anni
Sarah-Amelia 13 anni
Harrison 5 anni
Vito Mavrovich
66 Av. Breckendrige
DOLLARD-DES-ORMEAUX QC
H9G 1G4 CANADA
(2008)
DA LUSSINO AD AUSHWITZ
VITA DI ELSIE RAGUSIN
(Traduzione, presentazione e completamento di Nino Bracco)
DEDICA
Dedicato ai miei genitori, che persero insensatamente la loro vita per le deliranti convinzioni di coloro che si ritenevano razza superiore.
PRESENTAZIONE
La storia della famiglia di Giovanni Ragusin di Neresine (isola di Lussino), per quanto stupefacente e drammatica, era del tutto sconosciuta, perfino ai compaesani; ciò è probabilmente dovuto anche ad un senso di vergogna collettiva, per quanto non imputabile agli abitanti del paese, ma soltanto a poche persone, impregnate dell’esasperato fanatismo politico del regime del tempo, ormai in evidente disintegrazione, che li hanno denunciati.
Solo da pochi anni sono venuto a conoscenza della loro storia attraverso due fonti d’informazione indipendenti tra loro: una, un po’ generica, proveniente dal racconto dei parenti della famiglia, che ho poi approfondito con ricerche nel paese d’origine, che hanno portato a riscontri inconfutabili. L’altra più precisa, scaturita dalla scoperta del libro ”An American in Auschwitz”, scritto in inglese da Elsie Ragusin, protagonista principale di questa storia.
Un altro breve scritto, redatto dal figlio Albert Ragusin in onore di suo padre, rievoca sinteticamente la vita del proprio genitore. Anche questo scritto viene integralmente qui pubblicato.
Da queste informazioni la storia della famiglia Ragusin può essere sinteticamente riassunta così:
Giovanni Ragusin, nato a Neresine il 22 febbraio 1882 (soprannome del clan: Gustignevi), emigrò come tanti altri compaesani negli Stati Uniti nei primi anni del XX secolo, portando con se anche la giovane moglie. Sposato con Domenica Soccolich nel 1908, il viaggio di nozze fu quello che li portò da emigranti in America. Dopo le prime residenze a New Orleans e Chicago, dove nacquero i primi tre figli maschi, si stabilì poi definitivamente a New York. In quella città trovò un buon lavoro e qui nacque la quarta figlia, Elsie. La famiglia crebbe serena, e quando i figli maschi si resero autonomi ed incominciarono a lavorare, Giovanni Ragusin e sua moglie, che intanto avevano messo da parte un bel gruzzolo e che non avevano mai smesso di sognare con nostalgico rimpianto il paese natio, pensarono di ritornare nella loro terra di origine. Nel 1939 intrapresero il viaggio di ritorno, portando con se la giovane figlia Elsie, lasciando in America gli altri figli maggiori, che preferirono restare nel paese dove erano nati e dove avevano tutti un buon lavoro.
Giunto al paese natio Giovanni Ragusin, oltre alla cittadinanza italiana, volle mantenere anche quella americana, e decise di stabilire la sua residenza definitiva a Lussinpiccolo, acquistando in quella cittadina una bella casa sul mare, con annesso moletto di attracco per la sua barchetta (caicio), pensando di trascorrere serenamente in quel posto gli ultimi anni della sua vita. La casa era ubicata poco distante della cavanella di Privlaca, (dove ora si trova la “Marina”). Giovanni e la sua famiglia trascorsero i primi anni, fino al 1944, nella nuova casa, facendo frequenti capatine a Neresine dove vivevano la vecchia madre, le sorelle e gli altri parenti. Nel frattempo la Elsie, che era una bellissima ragazza, si innamorò, ricambiata, del neresinotto Toni Rocchi, giovane capitano di lungo corso; i due si fidanzarono ed i viaggi a Neresine della famiglia si fecero più frequenti.
Scoppiò la guerra, il Toni fu richiamato sotto le armi e divenne ufficiale della marina italiana.
Elsie Ragusin, attualmente residente ad Orlando (Florida), nei vari contatti con lei avuti, ha sempre voluto sottolineare che non ha mai dimenticato il suo primo grande amore: il Toni Rocchi.
Dopo l’armistizio italiano dell’8 settembre del 1943, i Tedeschi occuparono l’Italia, inclusa la Venezia Giulia e le nostre isole del Quarnero. A Neresine il controllo territoriale fu affidato ai miliziani fascisti della X-Mas, mentre a Ossero, Lussino e negli altri centri delle isole, strategicamente più importanti, fu mantenuto dai Tedeschi. Nel 1944 iniziarono anche i bombardamenti di Lussinpiccolo da parte di aerei anglo-americani. I Ragusin, che avevano la casa vicino a uno squero, decisero di rifugiarsi a Neresine come sfollati, come fecero anche altre famiglie lussignane.
Le autorità tedesche, che avevano anche il “compito” di scovare gli ebrei nei territori occupati per deportarli in Germania, mandarono direttive alle autorità politiche e militari dei vari paesi, in ordine alla denuncia e arresto di cittadini ebrei residenti. Per facilitare il lavoro di “scoperta” degli ebrei alle autorità politiche locali, i vertici politici regionali mandarono una circolare segnalando che i cognomi di città o derivanti da città erano il chiaro segno di appartenenza alla razza ebraica. I politici locali di Neresine, (ora dopo tanti anni individuati, assieme a tutto il retroscena “politico” della tragica storia), per dimostrare “sacro zelo“ di fronte alle autorità politiche regionali, o per altri abbietti motivi, decisero di denunciare i Ragusin quali ebrei, stante, secondo loro, il cognome di derivazione dalla città di Ragusa. A seguito di questa denuncia, Giovanni Ragusin e la figlia Elsie vennero arrestati dalla polizia politica (Gestapo) e portati in prigione a Lussinpiccolo, dove rimasero per tre giorni, mentre la madre, che aveva il più diffuso cognome del paese (Soccolich) non fu arrestata perché “ariana”. L’accusa di ebraismo ben presto cadde anche per i Ragusin, perché è risultata evidentemente del tutto falsa, in quanto non erano affatto ebrei; l’imputazione, a questo punto, fu trasformata in politica. I Ragusin, in quanto “americani”, furono dichiarati spie degli anglo-americani, furono quindi mandati a Fiume. I parenti, amici e compaesani insorsero chiedendo ai politici locali spiegazioni sull’arresto dei due, i quali risposero che Giovanni Ragusin era stato scoperto a fare segnalazioni notturne “con la sigaretta!!!” agli aerei anglo-americani che passavano altissimi sopra i cieli del paese per andare a bombardare Zara, quindi era da considerarsi una spia del nemico. La spiegazione dei politici era evidentemente del tutto falsa, e poi la ragazza Elsie non poteva essere anche lei una spia americana, perché tra l’altro, non “fumava”! Intanto i beni della famiglia: la bella casa a Lussino ed il denaro furono sequestrati e confiscati dalle autorità politiche, lasciando la povera madre, sola e disperata, senza mezzi di sostentamento!
Nella ricostruzione di questa vicenda è emerso anche che una delle principali motivazioni della denuncia di ebraismo, fu l’intento di impadronirsi dei loro beni. I due furono poi mandati nella prigione “Coroneo” a Trieste, dove furono definitivamente separati: Giovanni fu mandato nel campo di sterminio di Buchenwald e la Elsie in quello di Auschwitz.
Si ritiene opportuno, a questo punto, fornire anche alcune interessanti informazioni sui Ragusin vissuti nell’isola di Lussino.
Il cognome Ragusin era abbastanza diffuso nella nostra isola, specialmente a Lussingrande da cui ha origine, ma anche a Lussinpiccolo, ed è uno dei più antichi dell’isola. La prima menzione scritta di questo cognome risale al 1460, quando i Lussingrandesi, per difendersi dalle incursioni piratesche, eressero a Lussingrande una robusta torre. La tradizione ne attribuisce la proprietà proprio alla famiglia Ragusin perché il terreno in cui fu costruita apparteneva a questa famiglia; ma per lo scopo di comune difesa cui era destinata e per l’ingente dispendio che la sua costruzione dovette richiedere, è presumibile che sia opera di tutto il popolo. Viene riportata, dal libro “Lussingrande, cenni storici” del prof. M. Budinich, una breve descrizione della torre:
“Situata in prossimità del porto, sopra un terreno declive, e dalla parte di Greco alta 17 metri, da quella di Libeccio circa 15, la sua circonferenza alla sommità e di 33 metri. Nei tempi del pericolo, vi si rifugiavano le donne, i vecchi, i fanciulli, riportandovi in salvo i migliori effetti; v’erano conservate anche delle provvigioni di viveri pel caso di un’invasione improvvisa, e si teneano pronti nella parte superiore cumuli di pietre, acciocché anche i ricoverati potessero difendersi, qualora il baluardo venisse aggredito. Riguardo a questa torre, la tradizione asserisce, che nel principio del secolo decimottavo, durante la guerra fra i Veneziani ed i Turchi per il possesso della Morea, gli abitanti rinchiusisi nella torre, si siano valorosamente difesi dagli assalti di alcuni barbareschi qui approdati con le loro galee, e li abbiano vittoriosamente respinti”.
Nel 1520 Antonio Ragusin fondò il “Fondaco di Biade”, un’istituzione di grande vantaggio per il popolo di Lussingrande, cui dispose un lascito di trecento lire, onde provvedere ad aiutare i poveri nell’acquisto di generi alimentari. Il Fondaco di Biade, detto anche dei poveri, s’accrebbe notevolmente nei secoli successivi per la zelante amministrazione dei suoi responsabili e per lasciti generosi a suo favore.
Ancora, Antonio Ragusin, forse lo stesso del “Fondaco di Biade”, con testamento del 15 ottobre 1579 lasciava alla Chiesa una stanza (cioè luogo boschivo e arativo) denominata Garmosal, (nome che nell’antica lingua dalmatica significa zona boschiva a macchia) a quattro miglia da Ossero, con 83 animali, con l’obbligo della celebrazione annuale di 14 Messe cantate e 12 Messe basse.
Altri racconti ci dicono che, ancora un Antonio Ragusin, rimasto nella storia con l’appellativo di “Pater Patriae”, fu promotore di importanti iniziative contro l’invasione barbarica delle isole. Alla sua morte, avvenuta nel 1569, egli lasciò alla confraternita di S. Antonio Abate, – il santo Patrono di Lussingrande – una casa con terreni ed animali, per l’alloggio dei senza tetto, con il legato di distribuire annualmente, il giorno della festa dell’Ascensione, pane, denaro, cibo e vino ai poveri del paese.
Questo cognome appare ancora negli antichi documenti degli archivi della Repubblica di Venezia nel XVI secolo riguardanti la Contea di Ossero e Cherso, in cui sono espressamente citati due pescatori di origine veneta: Ragusin e Botterini di Lussingrande, per aver per primi organizzato la pesca delle sardelle col sistema chiamato “tratta con fuochi”, e ciò rientrava negli interessi della “Serenissima”.
Altra importante menzione dei Ragusin si trova negli archivi storici di Venezia. In un elenco dei “I MILLE” più valorosi combattenti nella storica Battaglia di Lepanto del 1571, cioè i mille ritenuti dalla “Serenissima” i più degni di essere ricordati nella storia con il massimo onore, è citato Francesco Ragusin, importante membro dell’equipaggio della galea veneziana denominata “San Nicolò con la Corona”, appartenente alle città di Ossero e Cherso, comandata dal valoroso sopracomito Colane Drasa di Ossero.
Nella Battaglia di Lepanto la galea “San Nicolò con la Corona” era schierata al nono posto della prima linea del corno sinistro della flotta cristiana ed era considerata una delle più veloci navi della flotta veneziana, per la grande efficienza e resistenza dei suoi vogatori, tutti isolani. Proprio per le sue note caratteristiche di velocità e manovrabilità, la galea Osserina veniva anche mandata in pericolosi viaggi di ricognizione per spiare il posizionamento strategico della flotta turca. Nella storia della preparazione di questa battaglia è rimasta documentata negli Archivi Storici veneziani una memorabile ed abilissima lunga fuga della nostra galea, tra isolette e scogliere della costa greca, sfuggita con successo all’inseguimento delle navi turche che l’avevano sorpresa. Inoltre, nella famosa Battaglia, la “San Nicolò con la Corona” si distinse particolarmente, anche per aver per prima rimorchiato in primissima linea, di fronte alla flotta turca, con la “massima sollecitudine”, una delle famose “galeazze” (erano dei grandi barconi corazzati ed armati di potenti cannoni, praticamente delle fortezze galleggianti), che furono determinanti per l’esito della battaglia, favorevole alla flotta cristiana. Per il suo valoroso comportamento nella Battaglia di Lepanto, la Serenissima Repubblica conferì al sopracomito della “San Nicolò con la Corona”, l’osserino Colane Drasa, un encomio solenne, tuttora conservato negli archivi storici di Venezia.
Proclamazione di S. Gregorio a patrono di Lussingrande, anno 1664 febbraio. Documento originale emesso dall’antica confraternita di S. Antonio Abate.
“Trovandosi radunati noi confrati di S. Antonio nella casa della confraternita: Don Matteo Boxichievich pievano, e i Cappellani Don Antonio Ragusin, Don Nicolò Melata, Don Martino Botterini e altri sacerdoti e il Giudice Antonio Botterini, Capitano Pietro Petrina, Gregorio Lettich, Giovanni Simicich, Giovanni Badalich, Giovanni Budinich, Marco Saleta e i rimanenti confrati: poiché nel giorno 25 del mese di aprile 1663 ci fu donato dall’illustrissimo Signor Vescovo Giovanni De Rossi il corpo di San Gregorio Martire e riposto nella sacrestia di questa nostra Chiesa Parrocchiale, e poiché sull’altare maggiore è riposto il Santissimo Sacramento, perché abbiamo pregato il medesimo illustrissimo Signor Vescovo, di trasportare il Santissimo Sacramento sull’altare della Beata Vergine Maria del Carmine e di trasportare il corpo di San Gregorio sull’altare Maggiore, la quale grazia ci fu concessa dallo stesso Signor Vescovo e lo abbiamo collocato sull’altar Maggiore, affinché per sempre rimanga unito col nostro primo Patrono S. Antonio e perciò abbiamo scelto anche Lui come Patrono e difensore, e la Sua Festa per sempre venne stabilita il giorno 7 del mese di luglio come giorno della Santa Domenica, e tutto ciò ci fu concesso dal Signor Vescovo.
Inoltre decisero i detti confratelli che ogni anno si deve dare come obolo alla Chiesa in onore a detto Santo Gregorio nostro Protettore il ricavato di parte delle sardelle che verranno pescate. Queste promissioni accontenteranno tutti i confratelli e che sieno osservate ora e sempre da tutti noi e da quelli che verranno dopo di noi. Amen.
Ho sottoscritto io Don Antonio Ragusin, Capellano pregato da detti confratelli.”
Un Capitano Tommaso Ragusin si distinse nella guerra di Morea contro i Turchi, particolarmente in un fatto d’armi presso Corfù nel 1716. Un suo figlio, Cap. Antonio è ricordato come grande benemerito, per aver migliorato l’amministrazione delle scuole laiche ed anche suo fratello Cap. Tommaso, per lo zelo dimostrato nella ricostruzione della Chiesa Parrocchiale.
Il Cap. Martino Ragusin, prestava servizio come ufficiale in una nave veneziana, quando, il 14 gennaio 1747 fu assalita da un grosso sciabecco algerino armato di 24 cannoni e con 313 uomini di equipaggio. I Veneziani si difesero valorosamente, ma appiccatosi il fuoco alle polveri, la nave saltò in aria e vi perì tutto l’equipaggio, ad eccezione del Ragusin e di un altro marinaio, i quali furono condotti schiavi ad Algeri. Venduta la casa per riavere la libertà, il Ragusin prestò ancora, come Capitano, notevoli servizi alla Repubblica.
Altri membri di questa famiglia si distinsero nell’esercizio di pubbliche mansioni, tra questi parecchi sacerdoti, come Don Francesco Ragusin che fu parroco a Lussingrande dal 1712 al 1726, ed un altro Don Francesco Ragusin, canonico e per lungo tempo cappellano a bordo di navi della squadra veneta.
Altre persone importanti che si distinsero a Lussingrande furono il notaio Filippo Ragusin (inizio 1700), ed il giudice Giovanni Ragusin 1736.
Tra i Ragusin, merita una menzione anche il Rev. Don Antonio Ragusin di Lussingrande, acclamato dalla cittadinanza nel 1848, dopo una clamorosa rivolta popolare, quale parroco della cittadina, contro il volere delle autorità politiche e dalle Curia Vescovile di Veglia. In quella circostanza il “popolo furente” cacciò brutalmente dal paese il parroco filocroato Don Stefano Antoncich, imposto dalle autorità alcuni anni prima (1845), contro il volere della popolazione. (Avvenimenti raccontati dal contemporaneo dott. Matteo Niccolich nel suo libro “Storia documentata dei Lussini” – 1871).
Rassegna storica del Risorgimento Italiano, Volume 18. Parti 1-2- pag. 564. “…assieme ai Budini furono arrestati i Capitani Pietro Maria Ragusin, Agostino Petrina, Antonio Giacomo Bussani. Simeone Letti ….”
Un altro avvenimento memorabile ha avuto come protagonista ancora un Ragusin. Un veliero austriaco trialbero di 367 tonnellate, costruito a Muggia nel 1861, navigava nell’Oceano Atlantico diretto ad Amburgo con prezioso carico a bordo ed un equipaggio di 10 marinai. Poco dopo la partenza dall’Argentina il comandante si ammalò di febbre gialla, e dopo poco anche gli altri membri dell’equipaggio. In pochi giorni morirono tutti; sopravissero soltanto il cadetto Silvio Ragusin ed altri tre marinai. La nave rimase senza comando. Il “cadetto” Ragusin, assunse il comando della nave, provvide, assieme ai suoi compagni superstiti a degna sepoltura in mare dei deceduti, come da antica tradizione marinara, e dopo 96 giorni di drammatica navigazione, col solo aiuto dei tre marinai, riuscì a portarla al porto di destinazione: Amburgo! Per questo comportamento il governo austriaco gli conferì la medaglia d’oro al merito. Il suo equipaggio, i tre marinai, ricevettero la medaglia d’argento ed un consistente premio in denaro. Un diploma dice: “Sua Maestà Imperiale, Regia, Apostolica, l’Augusto nostro Imperatore, con Sovrana risoluzione si è graziosamente degnata di conferire a Vossignoria la Croce d’oro in ricognizione delle lodatissime e benemerite prestazioni.”
Un altro Ragusin di Lussingrande si trasferì nell’isola di Cipro, dove divenne un noto commerciante di generi alimentari, proprietario di distillerie ed importatore ed esportatore di vini e liquori di alta qualità. A Cipro c’è ancora una strada chiamata Via Ragusin. Sembra che questo Ragusin fosse anche governatore della città di Larnaca.
Moltissimi altri Ragusin si distinsero nella storia della nostra isola, come Capitani, sacerdoti, armatori, notai, ed in atre professioni.
Viene qui presentato anche il libretto scritto da Albert Ragusin in onore a suo padre. (Il libretto viene trascritto tal quale, perché scritto in italiano).
“A MIO PADRE NELL’ORA CRUENTA DELLA PRIMA OPPRESSIONE BARBARICA”. GIOVANNI RAGUSIN 1882 – 1945
Nel secondo anniversario dalla scomparsa del nostro rimpianto genitore, cercheremo di abbozzare in pochi cenni i carissimi ed indimenticabili ricordi che di lui conserviamo con il più religioso affetto.
Se l’acerbo dolore, nella perdita di un consanguineo è indiscusso, compreso e condiviso dai più intimi; per noi inoltre, lo strazio crebbe a mille doppi, nell’apprendere la sua orrenda fine: inquantoché non succedette per avvenimento naturale.
Lo straniero, come prima, come sempre, quando il passo non è vigilato dal Legionario, di là dall’Alpe, calò a mare a mendicare il nostro sole.
Non è necessario che si ritorni qui a rievocare come si presentarono da noi in tutti i tempi quelle torme predaci, fossero esse di schiatta teutonica o slava. Se come non bastasse il saccheggio e la rovina che ovunque, per il loro marchio e vergogna disseminano, accadde pur anco, che spesso strappano dalle pareti domestiche e dalle braccia tese e supplicanti dei congiunti, uno o più di loro cari, per gettarli esuli, negli spaventevoli campi di concentramento, lungi dal suolo natio.
Questa, purtroppo, la sventura riservata anche al mite e caro uomo, di cui noi orquì faremo in pochi cenni la storia.
Che possa intanto questo saggio illuminare i suoi posteri, che in seguito forse lo rievocheranno; che possa esso ingagliardire in loro la certezza che egli fu, sempre e ovunque, fiero sostenitore della sua italianità (1). Questo lo tramandiamo, alieni dal macchiarci – presso lo scomparso – di incaute menzogne; ma sì, nella certezza assoluta, noi, che nelle sue braccia abbiamo aperto per la prima volta gli occhi al sole. Ma anche, sin da adesso, per confutare i vociferatori incoscienti, che di lui tra di loro o agli altri forse ne avviluppereranno la memoria.
Volli narrare la storia, prima che se ne attenui o perisca il ricordo, di un importante nostro congiunto, che seppur ignoto e umile, lumeggia al fianco del baldo manipolo dei nostri martiri irredenti, di tutti i tempi, poiché anch’egli per l’indomito amor patrio, nell’esilio s’immolava.
I NATALI – LA FAMIGLIA
Nacque il 22 febbraio 1882 a Neresine, nell’isola di Lussino, da Domenico Matteo Ragusin e Atonia De Dominicis.
Il primogenito(2) di una numerosa famiglia. Qualche giorno appresso, alla fonte battesimale del Duomo, lo chiamarono col nome del suo avo Giovanni Ragusin.(3)
Fatalità o coincidenza, “Giovanni”, sembra essere un nome apportatore di sinistro augurio(4), nella famiglia dei Ragusin.
Neresine vide la sua docile infanzia, senza alcunché di notevole da rilevare. Più tardi, divenuto un po’ più grandicello, solea accompagnare la mamma o la nonna a Lussinpiccolo, per vendere colà, al mercato, i loro prodotti dei campi: frutta, ortaggi e uova.
Lussinpiccolo dovette sin da allora esercitare sul giovane maschietto un gran fascino, che lo accompagnerà per tutta la vita. Diffatti, in quel periodo la città marinara, culla di forti ed ardimentosi naviganti, viveva un momento del suo massimo splendore. Nel porto, la bella ed ampia “Valle di Augusto”, era tutta una selva, egli ci raccontava, con nostalgia, un incrocio di alberi e vele quadre dei bastimenti, e continuava: di buon’ora Lussino era tutta un movimento di operai e lavoratori, che in colonne lunghissime da ogni dove, si recavano verso i sonanti cantieri e officine navali.
Nessuna meraviglia quindi, se il giovanetto avrà supplicato indarno la mamma di lasciarlo a Lussino, per apprendere l’arte del “calafato”. Il suo primo sogno dunque, era quello di andar a lavorare nei cantieri navali di Lussino; tanta era la passione per il mare e per le barche, sogno, che come vedremo, si avverò sì, ma molti, molti anni appresso e dovea essere l’ultima occupazione come operaio.
Invece dello squero di Lussino, è necessario che si concorra un po’ al sostentamento della loro numerosa famiglia. Così lo troviamo a navigare tra Istria, Venezia e la Dalmazia, sui trabaccoli e velieri di cabotaggio di Neresine, prima come mozzo, poi marinaio.
Ancor molto giovane, si sente – com’è naturale – l’ala dell’amore sfiorargli l’anima. Ha forse 18 anni e già sceglie la compagna della sua vita: la nostra cara mamma.
Costretta anch’essa, perché orfanella a guadagnarsi il pane, facendo da servetta ad una famiglia di Lussinpiccolo; in un’età però, quando altre fanciulle, giocano ancora con la bambola.
Poi è chiamato a prestar servizio militare, che il quel tempo si protraeva per ben 4 lunghi anni. Se pur senza soverchio entusiasmo, egli indossa l’odiata divisa, lungi era manco il sogno, che in altro giorno, gli sarà imposto ancora una volta d’indossare l’orrida uniforme, e dello stesso spietato e spavaldo tedesco. Ma non già, ahimé, quella, se pur di un discutibile onore, almeno al riconoscimento del servizio a sua maestà, Francesco Giuseppe D’Asburgo.
In una crociera, oltre Atlantico, vede e ammira la grandezza di New York, e nel ritorno sosta in Grecia e nel Mediterraneo orientale, ove pare, si sposta in qualche punto di Terrasanta.
Congedato onorevolmente nel 1906, il 15 febbraio 1908, a Neresine si unisce in matrimonio. E qualche mese appresso, per incitamento di uno zio d’America (5), con la giovane sposa a Trieste sull’Atlanta della Cosulich, si imbarcano per gli Stati Uniti.
STATI UNITI D’AMERICA
New Orleans – Chicago – New York
Arrivarono circa un mese dopo a New Orleans e si stabilirono col suddetto zio. Egli prosperava discretamente nell’industria della pesca; industria che alimentava pure una sua piccola fabbrica per la preparazione di alcune specie di pesci sott’olio.
Nessun ricordo conserviamo del novello emigrante. Sappiamo peraltro, che fu sempre operoso, dedicandosi nel primo tempo alla pesca delle ostriche. Su di una piccola imbarcazione si portavano lontano dalle coste, e spesso tali escursioni diventavano avventurose a causa di improvvisi temporali, che imprevisti si sprigionavano nel Golfo del Messico. Compagni di avventura gli furono spesso due amici e uomini conterranei, e perché tali, tutti non altrimenti chiamavano che: “Toni Gigante” e “Micula Forte”.
Senonché, durante l’imperversare di una violenta bufera, il massimo fiume del mondo, il Mississipi, nella notte tempestosa straripò, travolgendo nella sua piena, e casa e poteri: “fu un miracolo” egli ci raccontava “che ho potuto salvare la vita e quella della vostra mamma”. Ma intanto tutto fu travolto e disperso: la sua barchetta da pesca, ristabilita la calma, la trovò nei boschi adiacenti, incagliata tra gli alberi.
Perduto tutto, eccetto la vita, decise di lasciare New Orleans e cercar fortuna altrove, Si trasferiscono allora a Chicago.
La fortuna a Chicago gli sarà stata più propizia, se non altro, perché colà si vide per la prima volta contorniato dalla sua famiglia, i suoi tre figli piccoli (6). Altri particolari ci sono ignoti della sua vita a Chicago, ma, in ogni modo non c’era molto da rilevare.
Nel 1917 è con la famiglia a New York, fino al 1922, quando rimpatria a Neresine con l’intera famiglia. Alla fine del detto anno è nuovamente in America, dove nel 1927, lo raggiunge il figlio Giovanni, al quale segue nel 1930 il rimanente della famiglia (7). Durante questo periodo di viaggi, egli si porta per alcuni mesi di vacanza (1929) a Neresine. Infine, nel 1939, passa con la m/n “Vulcania” l’ottava ed ultima volta l’Atlantico.
LUSSINPICCOLO
A Lussinpiccolo, in riva al mare e non lungi dallo squero, si compera un grazioso villino, ove conta di trascorrere nella quiete il rimanente della vita. Svagandosi con la barchetta, vive giorni felici, assieme alla compagna dei suoi lunghi viaggi e soste pel mondo. Il mondo, ove vide ed ammirò tante grandezze e meraviglie; ma in fondo al cuore era rimasto forte e radicato l’affetto alla sua isola natia. Lavorò anche finalmente nel suo squero, ma per poco.
LA GUERRA E L’ESILIO
Buchenwald
Il sogno vagheggiato sin dalla sua giovinezza si è finalmente avverato. Ma il rombo del cannone, tuonante nel corridoio disputato, invece di affievolirsi, si avvicinò sempre più, per sommergere nell’onda sanguinea anche la sua quieta e laboriosa isoletta natia. Ma chi mai potrà narrare i dolorosi avvenimenti che incalzano e si susseguono? E chi lo strazio, dopo i rovesci dell’Asse, quando tutti erano vigilati e sospettati dalla polizia tedesca, che libera e padrona, arrogante scorrazza per la via?
Il 14 giugno 1944, a Neresine, tre ufficiali della polizia tedesca “Gestapo”, si presentano sulla porta della casetta – che lo vide nascere – dove ora Giovanni Ragusin si è rifugiato a causa dei bombardamenti a Lussinpiccolo. Assieme alla figlia Elsie viene arrestato e portato in prigione a Lussino. Dopo tre giorni viene prelevato e, sempre sotto scorta tedesca, portato a Cherso, ove rimane un paio di giorni e poi fatto proseguire per Fiume il 19 giugno. Il giorno 24, col treno, viene portato da Fiume a Trieste, dove lo stesso giorno è gettato nel carcere di “Coroneo”. Il 27 dello stesso mese è separato dalla figlia (8), e sul treno trasportato verso il campo di concentramento.
A Buchenwald, in Germania, è sottoposto a patimenti e sofferenze inaudite. Finite le ostilità, invano la famiglia, a mezzo di tutte le autorità, cercò di rintracciarlo, invano attese il suo ritorno.
Un anno dopo la fine della guerra, una lettera da Milano(9), rendeva informato il sindaco di Neresine, del decesso di Giovanni Ragusin avvenuto il primo marzo 1945 a Buchenwald.
Nel primo anniversario si stampò un epitaffio alla memoria di Giovanni Ragusin (10).
NOTE
1 - I sentimenti di italianità erano vivissimi in Giovanni Ragusin, di cui ne diede ampia prova in ogni tempo, sin dalla sua giovinezza. Un primo ricordo, che per sua bocca abbiamo sentito narrare, avvenne a Chicago, ancora prima della grande guerra della nostra redenzione. Egli era spesso biasimato e schernito da alcuni suoi compaesani emigrati, perché appunto nutriva sentimenti italici, e in casa con mamma, anziché in slavo, si parlava troppo italiano. Tra i compaesani ricorderemo Isacco Zorovich, che lo insultò con parole ed azioni sconce. Giovanni Ragusin non era un polemista fegatoso; non si risentì. Attese invece con cauto silenzio il fatto. Con la vittoria delle nostre armi, e dopo Rapallo, fece ritorno in patria finalmente redenta, con tutta la sua famiglia. Questo sollevò molto scalpore tra i suoi (compagni?), ma egli, non badando a falsi consiglieri, il 20 maggio 1922, col “Presidente Wilson”, partiva da New York, per ritornare in patria il 7 giugno 1922. Cercò e coltivò sempre amicizie tra gli italiani; così in America è amicissimo dei fratelli capitani Antonio e Nicolò Camali, di Giusto Sigovich, poi quando rimpatriò definitivamente, a Lussinpiccolo, con Roberto Stuparich, comandante pensionato dei transatlantici Cosulich; con Marco Martinoli, dei cantieri Martinoli di Lussinpiccolo; con il cap. Eugenio Camalich; con il capitano e armatore Costante Camali, (compare e compagno di prigionia dell’immortale Nazario Sauro).
Ma la prova più luminosa della sua italianità, d’innanzi a cui si attenuano queste umili testimonianze, egli le diede quando alle carceri di Fiume, nella via dell’esilio, gli si chiede la sua cittadinanza: disse di essere italiano! È importantissimo rilevare qui, che poteva bensì dire di essere cittadino americano, poiché tale era (e lui lo sapeva) l’imputazione. Ma, egli, conscio d’un trattamento anche peggiore, non si smentì: disse di essere italiano. (Da informazioni attinte oralmente a New York da sua figlia Elsie Ragusin, pure internata e da uno di San Piero de’ Nembi, il suo superstite compagno d’esilio).
2- Dopo Giovanni, ne segue una numerosa prole, ricorrendo alla memoria ne farò l’elenco (le date si nascita e dei decessi ci sono ignote, e quindi l’ordine cronologico può essere inesatto: Giovanni, Giuseppe, Marco, Clementina, Atonia, Carmela, Antonio, Costante e Angela.
3- Giovanni Ragusin era il nome di un suo avo, ma anche la nonna si chiamava Giovanna, Giovanna Zorovich-Ragusin.
4- Il primo Giovanni che noi rinvenimmo è il Giovanni di nota 3. Era figlio di Domenico Ragusin e di Domenica Perovich. (Dall’attestato del Uff. Arcipretale del parroco di Ossero Nicola Depicolzuane). Con lui inizia (ma può darsi anche che continui) una serie di sventure, per cui tutti i “Giovanni” periscono in tragiche circostanze. Ecco intanto quelle a noi note: egli morì, ancor giovane, un giorno dopo la colazione, stanco, si sdraiò a terra addormentandosi, malgrado fosse tutto sudato dalla fatica,. Al contatto con i mattoni umidi e freddi, ne prese un forte raffreddore, che nella notte si tramutò in febbre e polmonite. Qualche giorno appresso ne morì. Così il suo maggior figlio Giovanni morì tragicamente nel Golfo del Messico in un naufragio. Il nostro Giovanni era a sua volta padre di due figli, avuti dal matrimonio con Maria Sattalich di San Giacomo. Questo Giovanni ritornava a casa a guerra finita (1914-1918) alla quale partecipò. Durante il viaggio da Monfalcone a Lussino, la nave urtò una mina, ed egli purtroppo annegò. Il suaccennato Andrea Ragusin, sposato a Lussinpiccolo, ebbe due figli: Giovanni e Andrea. Questo Giovanni si tolse la vita mediante impiccagione, in un momento di squilibrio mentale, da cui era afflitto da parecchi anni. Il nostro rimpianto padre, chiamò il suo primo figlio Giovanni e così anch’egli, non escluso, trovò tragica fine. Capitano di una bettolina di traghetto nelle acque portuali di New York, fu svegliato una notte dalle fiamme, che d’improvviso avvolsero la cabina in cui dormiva. Malgrado la fuga attraverso un finestrino, venne mortalmente ustionato, si da morire qualche ora dopo in ospedale.
5- Questo zio, il cui cognome era Benvenuti, era sposato con la sorella di sua madre.
6- Il 7 giugno 1911 nacque il primo figlio Giovanni; il 16 agosto 1912 Edoardo; il 17 ottobre 1914, chi scrive queste righe, e a New York l’11 novembre 1921 la figlia Elsie.
7- Nell’estate 1928 è in vacanza nell’isola natia. Si porta pure a Cherso per riabbracciare una sorella, colà sposata: Clementina Ronchetti. Non dimenticheremo come in una visita al già accennato capitano-armatore Costante Camali, entrambi avevano rievocato i giorni della loro giovinezza. Quella sera, prima di salutarlo, salgono sul “pergolo” ove garrisce nel tramonto il Tricolore italiano, in occasione di una festa nazionale. Il vecchio patriota rivolgendosi a nostro padre dice: aiutami Giovanni ad ammainare la nostra bella bandiera; parole ch’ei ricordava con fierezza ed orgoglio quando ricordava il suo amico Costante Camali.
8- Informazioni raccolte oralmente a New York da sua figlia Elsie, pure internata.
9- Ministero Assistenza Postbellica. Ufficio Staccato A.I, Ufficio Informazioni – Milano 22/1/1946.
N° di Prot. 7592-MC/Ar Categoria Do/M 123.
Oggetto: Documenti di proprietà dell’ex deportato signor Giovanni Ragusin, nato a Neresine d’Istria il 22/2/1882, residente a Neresine.
Abbiamo il vivo dolore di parteciparle che da elenchi pervenuti direttamente dal campo di Buchenwald risulta che l’ex deportato segnato in oggetto è deceduto nel campo stesso in data 1/3/1945.
Egli era stato deportato in detto campo col numero di matricola 5778.
Unito alla presente inviamo certificato di decesso. Questo ufficio ha inoltre ricevuto direttamente dalla Germania un piego contenente i seguenti oggetti: un orologio in argento, un paio di gemelli in metallo. Materiale che teniamo a disposizione dei congiunti.
10- Epitaffio stampato nella tipografia “Vanni” di New York, aprile 1946.
Un giglio, una Croce, un cipresso non mostrano dove dorme la spoglia di Giovanni Ragusin.
VISSE VITA PER ANNI LUNGA, PER AFFANNI LUNGHISSIMA.
PROVVIDO, SOLERTE, PRUDENTE, MITE, CARO PADRE DI FAMIGLIA. PER VITA SEMPLICE, INTEMERATA, OPEROSA, CORAGGIOSO PEL MONDO PELLEGRINO, MA RITORNATO IN ITALIA, CHE AMÓ DI POSSENTE AFFEZIONE, VI BRAMÓ UNA STANZA E VI RINVENNE UNA TOMBA.
PEL VOLVERSI DI MUTABILI TEMPI, INTERNATO NEL CAMPO DI CONCENTRAMENTO, L’ESULE CHIAMÓ GLI ASSENTI FIGLI E L’AMATA CONSORTE, SOLERTE MADRE, DESIDERABILE AMICA, MORÍ IL GIORNO PRIMO DEL MESE TERZO L’ANNO D.D. 1945.
SPLENDE VENERATO MARTIRE ADESSO TRA LI SILENZI DI PACATA LUCE.
FU CODESTA ONORARIA EPIGRAFE DAI FIGLI MESTAMENTE, AFFETTUOSAMENTE STAMPATA.
Il libro che andiamo a presentare è stato scritto dalla protagonista di questa storia, ed è stato completato dai racconti e dalle precisazioni della stessa autrice, raccolte dal traduttore.
Nel libro in versione originale inglese sono anche inserite molte fotografie che scandiscono i fatti salienti della vita della protagonista.
Poiché anche le fotografie, e le relative didascalie sono parti integranti di questa storia ed hanno un importante significato per la comprensione dei sentimenti dell’autrice, si ritiene utile, non potendo inserirle nella traduzione del libro, farne l’elenco nell’ordine cronologico con cui si sviluppa il racconto.
-Fotografia dei genitori Giovanni Ragusin e Domenica Soccolich.
-Carta nautica con rappresentata l’isola di Lussino.
-Una bellissima Elsie in calzoncini corti seduta sul moletto di casa a Lussinpiccolo.
-Due vedute panoramiche della cittadina di Lussinpiccolo, due di Cigale ed una di Neresine.
-Due belle foto del fidanzato Toni Rocchi.
-Due foto del modellino di veliero costruito a New York dal padre, mentre veleggia nel laghetto di Central Park.
-Due foto delle prigioniere di Auschwitz.
-La riproduzione fotostatica della lettera scritta alla madre dal carcere Coroneo di Trieste.
-Una foto della tunica a strisce grigie e blu che indossava da prigioniera, col triangolo rosso di prigioniera politica e con sopra scritta, da lei stessa, la sigla USA.
-Una foto del libro di preghiere “Massime Eterne” diventato anche il diario della prigioniera.
-Due disegnini del diario, uno rappresentante la Madonna di Pompei con preghierine scritte dall’autrice in inglese, l’altra con un alto pino crescente in una landa desolata, e rappresentante il simbolo della sua condizione, con didascalia in italiano.
-Due copie fotostatiche di due pagine del libretto-diario, una con scritta in italiano una intensa preghiera, l’altra con i nomi dei genitori e fratelli con accorate parole di affetto, anche questa in italiano.
-Due foto di prigioniere del campo di Ravensbruck.
-Una foto del fratello Albert, in divisa di soldato americano.
-Due foto dell’autrice in costume operistico.
-La pagina della rivista “Glamour Magazine” in cui ci sono tre belle foto della Elsie.
-Una foto della Elsie col figlio piccolo Ronnie.
-Due foto della Elsie nello spettacolo “World Showcase” della Disney.
-Due foto: una del cimitero di Neresine e l’altra del monumento nello stesso cimitero di Neresine in onore a tutti i Neresinotti morti dispersi nelle varie parti del mondo.
Nino Bracco
Elsie A. Ragusin - DA LUSSINO AD AUSHWITZ. Vita di Elsie Ragusin
PREMESSA
Come ho iniziato a scrivere questo libro, la paura ha incominciato ad impadronirsi di me ed ha bloccato la mia memoria. Io avevo buttato tutto il mio passato dietro alle mie spalle, tentando di non pensare più alla mia vicenda personale e cercando di ripartire di nuovo per andare comunque avanti nella vita. Tuttavia qualcosa di pressante mi spingeva a scrivere, mi imponeva a far conoscere agli altri la mia tragica esperienza, sperando che ciò potesse contribuire a che una storia simile non potesse mai più accadere!
I
LE ORIGINI
I miei genitori nacquero, verso la fine del XIX secolo, nel piccolo paese di Neresine, situato nella parte nord orientale dell’isola di Lussino, nel Quarnero, a quel tempo appartenente al Mangraviato d’Istria, facente parte dell’Impero Austroungarico.
Mio padre Giovanni Ragusin, ancora molto giovane, s’innamorò di una ragazza del paese, che sarà poi la nostra cara mamma.
Congedato onorevolmente nel 1906 dal servizio militare, quale marinaio della Marina Militare austroungarica, ritornò al paese, e il 15 febbraio 1908 si unì in matrimonio con Domenica Soccolich. Uno zio d’America residente a New Orleans, lo invitò a venire presso di lui offrendogli un buon lavoro.
Il viaggio di nozze dei due sposini fu quindi un viaggio da emigranti verso l’America. Si imbarcarono a Trieste sulla nave Atlanta, della Compagnia di Navigazione Cosulich, e giunsero dopo un mese di navigazione nella città di New Orleans, che era la loro meta finale.
II
NEGLI STATI UNITI
Essi vissero a New Orleans per molti mesi, poi si trasferirono a Chicago, dove nacquero i miei fratelli John, Edward ed Albert. Successivamente si trasferirono a New York, dove io nacqui il 4 novembre del 1921.
Quando avevo solo pochi mesi, i miei genitori fecero un viaggio in Italia per andare a trovare i parenti e gli amici e mostrare i frutti della loro felice unione. Rimanemmo nel paese natale dei miei genitori per parecchi anni, durante i quali io e i miei fratelli frequentammo le scuole locali e facemmo molti amici. Poi ritornammo negli Stati Uniti, dove completammo il nostro percorso educativo nelle scuole americane.
Nel 1917 si trasferì con la famiglia a New York, dove nel 1921 sono nata io. Ricordo che il nostalgico e costante pensiero dei miei genitori fu sempre il caro paese natio, ed il sogno della loro vita era quello di ritornare un giorno a Neresine.
In famiglia i miei genitori parlavano tra loro solo in italiano, quindi per noi fu questa la nostra madre lingua.
Nel 1922 decidono di ritornare finalmente, con l’intera famiglia a Neresine, dove volevano far crescere ed educare i loro figli.
Del viaggio di ritorno al paese io non ricordo molto perché era molto piccola, so che andammo ad abitare nella casa natia di mio padre, dove viveva ancora la nonna; era una casa modesta, tipica del paese, situata “Sottomonte”, una contrada posta alle pendici del grande monte Ossero che sovrasta il paese. Dal cortile di casa si ammirava il paese sottostante, il bellissimo mare e le isole di fronte, era un posto meraviglioso; nelle limpide serate estive, con il cielo costellato di lucentissime stelle, lo spettacolo che ci offriva la natura era veramente incantevole. Io ed i miei fratelli ci ambientammo immediatamente, anche perché parlavamo la loro stessa lingua, ed intrecciammo intense amicizie con tutti i ragazzi del paese. Fu un periodo molto felice perché vivevamo tutti assieme, liberi di svolgere i nostri giochi d’infanzia in ogni angolo del villaggio. Io a tre anni incominciai a frequentare la scuola materna, i miei fratelli frequentarono le scuole elementari del paese. Ricordo con affetto la cara e dolce maestra Maria Zuclich, che ci insegnava a cantare le prime canzoncine ed a recitare. A sei anni anch’io incominciai a frequentare le scuole elementari.
Mio padre, sistemata la famiglia e non trovando in paese un lavoro soddisfacentemente remunerativo, dopo poco tempo, nello stesso anno 1922, decise di ritornare da solo a New York, come fecero altri compaesani (ricordo che ci parlava sempre dei suoi più cari amici e coetanei, i fratelli Antonio e Nicolò Camalich, Eugenio Camalic, Costante Camalich e Giusto Sigovich).
A New York trovò un ben remunerato lavoro e nel 1927 richiamò presso di se il figlio maggiore Giovanni, che aveva ormai 17 anni, infine e nel 1930 richiamò il resto della famiglia.
Io avevo ormai 8 anni, è lasciai Neresine con grande tristezza, perché avevo trascorso quegli anni in paese con una grande felicità. Il distacco dagli amici e dai parenti fu molto doloroso, perché tutti ormai mi volevano bene ed io mi ero molto affezionata a tutti loro.
A New York completai il mio curriculum scolastico nelle scuole americane, fino alla licenza dalla ”High Scool”.
Mio padre era una persona molto capace professionalmente ed un grande lavoratore, ma il suo pensiero e quello di mia mamma era sempre rivolto verso l’isola natia, dove sognavano di ritornare a trascorre gli ultimi anni della loro esistenza. Il tempo libero lo impiegava nella costruzione del modellino del veliero in cui da giovane fece il suo primo tirocinio da marinaio. Egli lo costruì con meticolosa precisione, in tutti i suoi minimi particolari e lo battezzò “Elsie”. Lo portò nel laghetto di Central Park di New York, dove fece il varo e lo fece navigare a vele spiegate, spinto da una leggera brezza. Un fotografo lo notò e fece molte fotografie e dei filmati, che apparvero anche nei notiziari cinematografici del tempo. Noi eravamo molto orgogliosi di lui.
Nel 1939, quando i miei genitori avevano ormai racimolato un bel gruzzolo di denaro, decisero di ritornare definitivamente al paese natio; i miei fratelli, che avevano tutti ormai un buon lavoro, decisero di rimanere negli Stati Uniti, io invece ero felicissima di andare con loro, e rivedere i cari amici e parenti che avevo lasciato e che non avevo mai dimenticato. Il viaggio fu meticolosamente programmato con un congruo anticipo, ma poco prima della partenza avvenne un disastroso incidente che lasciò tutti noi in un stato di shok. Mio fratello maggiore, Giovanni, lavorava in un barcone portuale nel fiume Hudson. In piena notte ci fu una terribile esplosione a bordo. La sua cabina fu invasa dalle fiamme, egli cercò freneticamente di aprire la porta e gettarsi all’esterno, ma ormai era seriamente ustionato. Arrivarono le ambulanze ed i pompieri e tutti furono stupiti dalla resistenza e dalla forza di quest’uomo, che, malgrado le gravi lesione subite, fosse riuscito a uscire fuori da tale orribile rogo. Noi fummo subito informati della disgrazia e ci precipitammo immediatamente sul luogo del disastro, ma poco dopo egli purtroppo morì. Per noi fu un’immensa tragedia! Era giovane, bello e prestante ed aveva ancora tutta la vita davanti a lui, ed ora se n’era andato! Quello fu per noi un immenso dolore.
III
LA PARTENZA – NUOVI ORRIZONTI
Partimmo per l’Italia, come programmato con la nave Vulcania, un transatlantico italiano della Linea di Navigazione Cosulich. I miei genitori fecero grandi sforzi per sostenersi a vicenda, dopo quello che era successo prima della partenza, io potevo vedere nei loro occhi e nel loro cuore una grande sofferenza, anche se loro cercavano di nascondere in tutti i modi i loro sentimenti per non coinvolgermi troppo nel loro dolore. Il ricordo dell’orribile e violenta morte di mio fratello Giovanni rimase comunque vivido in noi per tutto il viaggio.
Il viaggio fu per me comunque molto più interessante di quello precedente, perché non ero più una la bambina che lasciava per la prima volta l’America. Ero già grande e ovviamente molte più cose, che vedevo per la prima volta, mi affascinavano, come la bellezza dell’oceano, i gabbiani che volavano attorno alla nave, l’avvistamento delle balene e dei delfini. Anche l’avvistamento delle coste quando ci avvicinavamo ai porti in cui dovevamo entrare destavano in me una intensa curiosità ed un fascino particolare. Il alcuni porti entravamo tardi, durante la notte, e le scintillanti luci delle città erano uno spettacolo bellissimo.
Ci fermammo alle Azorre, delle piccole isole portoghesi in mezzo dell’oceano Atlantico. Quando approdammo, era divertente comperare mercanzie e piccoli souvenir dai mercanti che salivano a bordo, era uno spettacolo divertente ammirare i ragazzini che si tuffavano in mare per raccogliere le monetine che venivano loro gettate.
Ci fermammo in molti porti abbastanza a lungo da poter fare delle escursioni interessanti. Lisbona in Portogallo, la via principale della città è larga, con giardini ed alberi di palma, è chiamata il Viale della Libertà. Un monumento all’inizio del viale commemora la rivolta dei portoghesi, nel 1649, contro la dominazione spagnola. I marciapiedi di molte vie e piazze di Lisbona sono coperti di mosaici.
Io ed i miei genitori visitammo il palazzo reale di Belem, che ospita il museo delle carrozze dorate, un’impressionante collezione, del XVIII secolo, di mezzi di trasporto usati dalla corte reale. Il giardino botanico, veramente molto bello.
Barcellona, per esempio, era una candida città, con musei, verdi parchi e graziose variopinte case.
Il 18 luglio 1936 la guerra civile spaccò la Spagna, il fascismo abbatté la democrazia. Vigo: la Spagna pianse la sua morte. La guerra civile era finita da poco, il popolo vestiva di nero, per me è stato molto triste vedere nella gente una così grande mestizia.
Genova era un porto interessante, con i palazzi che partivano dalla riva del mare e salivano, in vari livelli verso i sovrastanti rilievi montuosi. I negozi, le trattorie (piccoli ristoranti a gestione famigliare), la gente che si muoveva indaffarata lungo le strette vie, ci facevano sentire il calore e la gradita accoglienza di questa città.
Una visione da togliere il fiato fu la baia di Napoli con il monte Vesuvio. Scendemmo a terra ed esplorammo il piacevole circondario della città. Fu qui che assaggiai il mio primo gelato “da passeggio”, acquistato per strada da un piccolo carretto ambulante. Continuammo poi per l’isola di Capri e Sorrento.
Partimmo e, attraverso lo Stretto di Messina, rientrammo nel Mediterraneo verso Algeri, visitammo molti strani negozi. Mio padre mi comprò un braccialetto con nella pietra scolpito uno scarabeo. Era tanto originale, unico, che l’ho sempre conservato con particolare cura ed affetto.
A Corfù, in Grecia, coi suoi innumerevoli oggetti d’arte, biancheria fine, vestiti ricamati e cuscini di vari colori, ampiamente esposti dai venditori, era veramente difficile resistere dal fare acquisti. Comprammo una tovaglia, cuscini, alcuni braccialetti di conchiglie ed orecchini.
Ho ammirato la bianca sabbia, le spiaggette di ciottoli e la grande quantità di alberi di ulivo. In distanza si poteva vedere l’Albania con le sue montagne lungo la costa. Noi eravamo ormai nel mare Adriatico ed entrammo nelle Bocche di Cattaro, conquistate dai Romani, governate poi da vari dominatori. I Veneziani le tennero per il periodo più lungo.
L’eccitazione aumentava come più ci avvicinavamo alla nostra destinazione. Diventammo più ansiosi ed eravamo sempre all’esterno per esplorare questi incantevoli posti, quando improvvisamente apparve alla mia vista un’incantevole visione, a cui i miei occhi non potevano credere. Era come un sogno, una fantasia! Ci stavamo avvicinando a Venezia, un bellissimo gioiello sorgente dal mare. Si deve veramente vedere questo spettacolo per capire cosa può essere un momento di riverenza.
A Venezia ci fermammo per un tempo molto breve, quindi non abbiamo avuto abbastanza tempo per vedere tutto – I leoni di San Marco, il Canal Grande, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, la basilica di San Marco, i campielli, le piazzette. Mi piacque particolarmente fare colazione nei caffè-giardino all’aperto, ascoltando la musica, guardando i passanti, la laguna e le gondole, uniche al mondo. Uno dei miei cugini venne ad incontrarci, e ci portò in una trattoria dove mangiammo un piatto tradizionale costituito da polenta con pesce, vino e frutta. Era tutto molto squisito!
Poi arrivammo a Trieste, col suo Faro, San Giusto, i negozi, i caffè. Qui incontrammo mio cugino Piero, che era un bersagliere (uno speciale corpo dell’esercito italiano), con lui andammo in giro ad ammirare tutti i posti di interesse. Questa fu l’ultima nostra sosta. Da qui prendemmo un altro più piccolo piroscafo per continuare il viaggio fino a l’isola di Lussino.
Partimmo con la nave “Morosini”, la successiva fermata fu Pola, nel Quarnero.
Pola fu un’importante provincia dell’Impero Romano, di cui rimangono i resti di un grande anfiteatro, l’Arena. Questa regione è stata governata, prima dai Romani, poi, per 8 secoli dalla Repubblica di Venezia, poi dall’Austria ed infine dall’Italia. Come ci avvicinavamo all’isola di Lussino, io potevo vedere mia mamma e mio papà che parlavano e riflettevano sulla loro infanzia, vissuta in questa terra.
Le due principali isole del Quarnero, Cherso e Lussino erano un tempo unite tra loro da un sottile lembo di terra: un istmo. Al tempo dei Romani fu asportato il lembo di terra e scavato un canale. La continuità tra le due isole fu mantenuta tramite un ponte. Il canale fu chiamato Euripo.
La più antica leggenda dice che in questo posto si fermò Giasone con i suoi Argonauti durante gli avventurosi viaggi alla ricerca del vello d’oro, portando con se Medea, figlia del re dei Colchi. Il re dei Colchi mandò alcune navi, comandate da suo figlio Absirto per inseguire Giasone, e proprio qui i Colchi sorpresero Giasone; ma nella notte, Absirto fu tradito dalla sorella Medea ed ucciso da Giasone. Dalla morte e dalla sepoltura di Absirto in queste isole, sarebbe derivato il loro nome antico di “Absirtides”. I Superstiti Colchi rimasti senza navi, fondarono qui una prima colonia Greca a cui diedero il nome di “Absoros”, poi diventata Ossero. Questo mito certamente fa intravedere la presenza in queste isole di antiche civiltà, in un’epoca forse anteriore a quella Omerica.
Cherso, per grandezza, è la seconda isola dell’Adriatico. Mia zia e miei cugini vivevano a Cherso e furono molto felici quando andammo a trovarli. Fu un’incredibile viaggio, per una stretta, contorta e lunga strada da Lussino, tra boschi e dirupi verso il mare.
Quando entrammo nel porto di Lussino, nella bellissima Valle d’Augusto, io vidi per la prima volta quanto bella fosse Lussinpiccolo, mi ricordava la baia di Napoli in miniatura. Le case coi tetti ricoperti di coppi rossi, la bella piazza sulle rive del porto, il paese abbarbicato sulla collina circostante, con in alto il duomo e l’alto campanile.
Quando sbarcammo, incontrammo gli amici e parenti che erano venuti ad accoglierci ed a festeggiarci, poi ci incamminammo tutti verso l’albergo per un meritato riposo.
Il giorno seguente ci recammo a Neresine nella casa dei nonni. Lungo la strada la campagna era veramente meravigliosa, coi piccoli villaggi e la gente indaffarata nella cura degli orti e delle vigne.
Neresine, un piccolo paese con vecchie case, piene di storia secolare. Al centro del pese c’è una bella e grande piazza lastricata di pietre lisce, al centro della quale un pozzo fornisce l’acqua fresca alla popolazione per tutto l’anno. In un lato della piazza c’è un enorme e vecchio albero di “pocriva” (bagaloro), che è un po’ il simbolo del paese. Di pietra erano anche le case, i negozi, la chiesa. Ci incamminammo a piedi nella strada in salita che porta verso il monte, per raggiungere la casa dei nonni, che sta nella parte alta dal paese, ogni tanto mi giravo indietro a guardare lo spettacolare panorama sottostante. Alla fine arrivammo, e li ci furono lacrime, risate e momenti di gioia per tutti noi.
Di Neresine mi è rimasto particolarmente impresso il ricordo della tradizionale festa di Santa Anna, il 26 luglio, giorno in cui si andava in gita-pelegrinaggio sul monte sovrastante il paese. Partimmo la mattina molto presto verso le 2, per raggiungere la cima del Monte Ossero, la più alta cima dell’isola (589 metri), dove veniva celebrata la Messa nella piccola Chiesetta di S. Nicola e S. Anna, costruita sulla vetta nel XII secolo. Si saliva tutti assieme, in una specie di processione, formata dagli uomini, donne ed i bambini del paese, incluso il prete ed i chierichetti. Raggiungemmo la cima allo scoppiare dell’aurora. Fui sbalordita dallo spettacolare panorama che si presentava ai miei occhi. Da lassù potei vedere tutte le isole attorno. Fu veramente una meravigliosa esperienza.
Alcuni giorni dopo il nostro arrivo fummo invitati ad un matrimonio. Mi raccontarono delle vecchie tradizioni, che qui chiamano il “ratto della sposa”. La sposa stava nascosta fingendo di essere stata rapita, lo sposo la liberava per poi vivere sempre insieme felici.
Nel periodo del carnevale fu chiesto a mio padre di suonare la tradizionale zampogna in piazza, dove si era raccolta molta gente vestita del tradizionale variopinto costume, per danzare tutti assieme gli antichi balli del folclore paesano e cantare le canzoni popolari. Mio padre era quasi un musicista, egli intagliò, per l’occasione, un magnifico piffero di legno per la sua zampogna, che tutti ammirarono.
Visitammo Ossero, il paese distante da Neresine 3,5 chilometri, dove mi raccontarono ancora una volta la leggenda di Giasone, il vello d’oro, di Medea e di Absirto. Ossero mostrava con evidenza le sue origini di ricca e potente città, governata dai Romani, dai Bizantini ed infine dai Veneziani. Il leone alato di Venezia domina, incastonato sulle antiche mura di cinta all’ingresso del paese. Bellissima l’antica cattedrale, sede vescovile fino agli inizi del XIX secolo, con preziosi antichi quadri di grandi artisti italiani del rinascimento e antiche statue. In questo posto ebbero luogo molte battaglie e razzie dei pirati Uscocchi.
Ritornammo a Neresine e quindi a Lussinpiccolo dove avevamo stabilito la nostra residenza. Mio padre aveva comperato una bella casa sul mare nella splendida Valle d’Augusto. La casa, molto signorile, aveva dei mosaici, pavimenti di parquet, candelabri di vetro veneziano e il consueto arredamento di uso locale. Il terreno attorno alla casa era ben strutturato, con giardino, fiori, frutti, orto e alberi. Avevamo anche un moletto dove mio padre teneva ormeggiata la sua barca.
La vista era fantastica, da casa si potevano vedere la navi entrare in porto, ed assistere alle regate delle barche a vela, che si svolgevano molte volte all’anno.
Le ottime condizioni climatiche, la stagione invernale assai mite e l’aria pura, ha fatto di questo posto il paradiso per quelli che soffrivano di affezioni polmonari. Le principali risorse erano i cantieri per la costruzione delle navi, la pesca ed il turismo.
Io feci subito amicizia con i giovani del posto, miei coetanei, che mi accolsero con grande simpatia, ed in poco tempo mi integrai totalmente nella vita di questa bellissima cittadina.
Mi sono anche associata a un piccolo gruppo teatrale, partecipando a molte rappresentazioni. Feci anche alcuni lavori occasionali come interprete presso gli uffici giudiziari, furono molto interessanti e stimolanti, fu anche assai piacevole aiutare degli studenti nelle traduzioni dall’italiano all’inglese.
Le piccole botteghe ed i caffè lungo le rive del porto erano la delizia per i turisti e per gli stessi residenti, e le passeggiate lungo la Riva 4 novembre furono una assoluta novità per me. Il solo passeggiare coi miei amici ed osservare le bellezze circostanti era un piacere del tutto appagante.
Alla sera solevamo sedere ai tavoli esterni dei caffè, aspettando l’arrivo in porto del “Morosini”. C’era musica, orchestrine, era il bellissimo ritrovo dei giovani del paese.
Io ero felice ed orgogliosa di partecipare alle loro feste e alle danze, concorsi di bellezza e feste di carnevale a cui venivo invitata.
La grande regata annuale che si teneva nella baia rendeva tutto così eccitante, con le innumerevoli barche a vela che si contendevano l’ambito premio per il vincitore. C’erano molte feste e le popolazioni dei paesi vicini e dalle delle isole circostanti venivano per contribuire alle celebrazioni con i loro più bei costumi e danze. Era una gioia far parte di questo splendore.
A Lussinpiccolo incontrai un bellissimo giovane, diplomato Capitano di Lungo Corso all’Istituto Nautico “Nazario Sauro” di Lussinpiccolo. Il suo nome era Toni Rocchi. I miei genitori ed i suoi erano dello stesso paese di Neresine ed erano stati bambini insieme e compagni di scuola e di giochi: cominciammo a frequentarci con una certa assiduità, finché tra noi sbocciò l’amore e ci fidanzammo.
Ogni volta che io andavo a Neresine a trovare i miei nonni, Toni veniva ad incontrarmi la domenica dopo la Messa, davanti alla chiesa, poi facevamo una passeggiata a Marina, con il codazzo dei parenti a amici che ci seguivano a debita distanza. Io pensavo che questo fosse un bel comportamento. Noi eravamo sempre seguiti a vista. Questa era l’usanza di allora.
Cigale era una bellissima baia posta nella parte occidentale della città di Lussinpiccolo, un posto magnifico, circondato da rigogliose pinete, costellato di bellissime ville sul mare e splendidi alberghi, spiagge di ciottoli e rocce, il mare limpido ed azzurro. Cigale, fin dall’inizio del XIX secolo è stato l’insediamento turistico più bello e rinomato di tutte le isole del Quarnero, e fin dall’inizio fu sempre frequentato da facoltosi turisti, anche stranieri.
Molte volte sono andata a Cigale a pregare nella piccola chiesetta della Madonna Annunziata, posta sull’estremo promontorio, proteso verso il grande mare aperto. Qui venivano a pregare i marinai prima della partenza, per chiedere alla Madonna un felice ritorno. Qui venivano le donne per dare un ultimo saluto ai loro uomini, imbarcati sulle navi appena uscite dalla Valle d’Augusto e dirette nei porti di tutto il mondo.
Ricordo che ero stata invitata al ballo degli Ufficiali di Marina in una splendida villa di Cigale, fu una emozione molto romantica. Sotto la sorveglianza dei miei genitori, sedevamo sulla terrazza, attorno ad un piccolo tavolo di marmo, illuminato da lanterne cinesi, guardando il grande e splendido mare. La dolce brezza notturna, la splendente luna piena, l’orchestra che suonava romantiche canzoni italiane, dava un particolare affascinante aspetto agli ufficiali, indossanti l’alta uniforme. Come iniziavo a ballare, rimanevo senza fiato per la bellezza che mi circondava. Toni era sempre al mio fianco ed era bellissimo nella sua uniforme di ufficiale di marina. Egli era Capitano di lungo corso della Marina Mercantile ed ufficiale della Marina Militare.
A Lussingrande, un bellissimo paese ad un paio di chilometri da Lussinpiccolo, andai a visitare il “Torrione”, un’antica torre costruita per difendersi dai pirati. Tra gli antichi costruttori della torre c’erano anche i miei antenati Ragusin, che fin dal XV secolo abitavano in questo paese e possedevano molte terre.
Mio padre andò a lavorare in un cantiere navale per la costruzione di navi, per stare più insieme ai suoi amici e per guadagnare qualche soldo per coprire le spese. Il suo amore per le navi non è venuto mai meno.
IV
LA TURBOLENZA
Quando nel 1941 scoppiò la guerra, Toni fu richiamato sotto le armi e imbarcato su una nave da guerra italiana. Questa è stata l’ultima volta che l’ho visto. A guerra finita, quando sono ritornata negli Stati Uniti, sono stata informata che la sua nave è stata silurata ed affondata e lui è stato trovato in mare ferito, portato in ospedale, dopo pochi giorni purtroppo morì.
Nel marzo 1941 ci fu un accordo segreto tra Hitler e il principe Paolo di Jugoslavia. L’accordo prevedeva che, di fronte un supporto jugoslavo alle forza dell’Asse, sarebbe stata prevista l’annessione alla Jugoslavia della Macedonia Greca, con Salonicco. Gli Jugoslavi successivamente rigettarono il patto ed esiliarono il principe, cosa questa che fece arrabbiare Hitler. Il risultato fu che i Tedeschi bombardarono senza preavviso Belgrado.
Le truppe tedesche invasero la Jugoslavia. Re Pietro volò in esilio ed il suo esercito fu disperso. Ben presto bande di guerriglieri cominciarono ad organizzarsi per combattere contro gli invasori Tedeschi. I Partigiani comunisti ed i Cetnici, decisero di schierarsi dalla parte delle forze alleate, ma questa presa di posizione fu apparente, perché essi non potevano operare politicamente insieme, in quanto erano tenaci avversari tra di loro.
I Cetnici erano nazionalisti manarchici Serbi, mentre i partigiani erano Croati, Sloveni, Bosgnachi e comunque di altre regioni della Jugoslavia, di ideologia comunista e repubblicana, infatti, si comportarono di fatto non come alleati, ma come nemici tra loro. Poi c’erano gli Ustascia, questi erano miliziani Croati ultranazionalisti e fascisti, comandati da Ante Pavelich, alleati con gli invasori Tedeschi.
I Partigiani erano comandati da Josip Broz Tito, nominato maresciallo della Jugoslavia e presidente del Comitato di Liberazione Nazionale.
Dopo l’armistizio dell’Italia del settembre 1943 ed lo scioglimento dell’Esercito Italiano, iniziò una gran confusione ed il territorio della Venezia Giulia fu abbandonato a se stesso; a Lussinpiccolo si sparsero voci che i Cetnici stavano per occupare le isole. Quando si incominciarono a sentire i primi rumori degli spari, la popolazione si chiuse in casa, costruendo barricate alle finestre. L’isola di Lussino rimase priva di protezione, perché anche da qui i soldati italiani se n’erano andati, mentre i tedeschi si apprestavano ad occupare tutti i territori.
Io ed i miei genitori rimanemmo chiusi in casa per parecchi giorni, avendo paura di mettere il naso fuori. Le varie fazioni slave che si costituirono in bande armate, erano barbare e feroci, combattendo tra di loro si massacravano reciprocamente, fratelli contro fratelli! Molti di questi irrompevano nelle case, terrorizzando le famiglie, rapivano le figlie, strappandole dalle braccia dei loro genitori.
In un giorno di questo turbolento periodo un gruppo di Cetnici arrivò dalla Jugoslavia, ed occupò Lussino, erano circa 75 miliziani, avevano tutti i capelli lunghissimi secondo una loro tradizione serba. Dopo pochi giorni arrivò anche un numero molto più consistente di partigiani comunisti, essi catturarono tutti i miliziani Cetnici, li imbarcarono a Lussingrande su un grande barcone, e a largo li sgozzarono, uno per uno, gettando in mare i loro corpi, opportunamente zavorrati. Per noi, assistere a questi avvenimenti, fu un orrore immenso ed il preannuncio di tempi tragici.
Un giorno ci fu un forte bombardamento navale contro le postazioni militari di Lussino, ed anche una casa fu colpita. La popolazione era pietrificata dal terrore. Aerei sorvolavano a bassa quota mitragliando i cantieri e le officine. Fu allora che decidemmo di rifugiarci a Neresine, nella casa dei nonni.
Poco dopo i tedeschi invasero le isole ed i partigiani comunisti scapparono, abbandonando il territorio. Da casa potevamo udire il rumore degli autocarri militari giù in paese, che portavano le truppe di occupazione.
Non passò molto tempo dall’occupazione tedesca, che un giorno, mentre eravamo a tavola, vedemmo tre militari tedeschi che si avvicinavano alla casa. Entrarono e presero me e mio padre per portarci a Lussino per un interrogarci. Ci dissero di portare anche del vestiario, perché avremmo potuto restare due o tre giorni. Noi chiedemmo spiegazioni per questo loro intervento, ma loro ci dissero che non erano autorizzati a risponderci, ma che dovevano soltanto portarci dal loro comandante. Comunque dissero che era un controllo di routine e che saremmo ritornati a casa entro pochi giorni. Fummo portati con un furgone a Lussinpiccolo, nella fortezza sotto il monte San Giovanni e ci misero in una piccola cella. Fummo tenuti li per tre giorni senza essere interrogati. Poi siamo stati portati indietro verso Neresine, ma senza fermarci in paese, ma proseguendo per Ossero e quindi a Cherso. A Cherso siamo stati tenuti per altri tre giorni, senza che ci avessero detto perché fossimo stati arrestati.
Io e mio padre passammo la prima notte nella cella, distesi sul nudo pavimento, del tutto esausti. Quando tentammo di addormentarci, sentimmo la porta della cella aprirsi. Tre militari tedeschi entrarono con due torce in mano, indirizzando il fascio di luce su di noi, parlando tra di loro. Uno do loro avanzò verso di me puntandomi in faccia il fascio di luce, mentre un altro allungò bramosamente le mani su di me, quello dietro disse: “Nein, das ist kline americanerin madchen” . che tradotto è: “no, questa è una ragazza americana”. Essi ridendo lasciarono la cella. Come ritornai da mio padre, potei percepire l’orrore e la rabbia dentro di lui. Egli cercò di rassicurarmi dicendomi che eravamo tenuti li per un madornale errore.
Il giorno successivo fummo portati fuori dalla cella, io fui chiusa in uno stretto sgabuzzino sottoscala al piano inferiore, mentre lui fu portato in una stanza al piano superiore per essere interrogato. Io gridai e piansi affinché mi facessero uscire. Non ricordo quanto tempo rimasi chiusa. Alla fine, udii la porta aprirsi e fui ricondotta di sopra, nella stanza dove eravamo stati precedentemente. Successivamente mio padre fu riportato nella stanza e la porta fu chiusa a chiave dietro di lui. Mio padre mi si avvicinò e mi abbracciò con la lacrime agli occhi dicendomi: “Elsie, quanto ora vorrei che tu fossi stata un ragazzo, invece della figlia che ho cosi tanto ardentemente desiderato!”
Ho capito che non voleva spaventarmi, ed aggiunse: “spero che domani tutto questo assurdo equivoco venga chiarito e che si possa ritornare a casa. Non ti preoccupare, è un orribile sbaglio. Sono certo che ora se ne renderanno conto”.
L’indomani venimmo portati fuori dalla prigione e portati in riva al porto, dove altri tre militari ci aspettavano in una piccola motobarca. Fummo imbarcati e portati a Fiume.
Fummo condotti in una prigione più grande, dove ci presero le impronte digitali, e qui, per la prima volta fummo separati e condotti in celle diverse. Io ero umiliata, terrorizzata, mi sentivo come una criminale. Nella cella dove mi portarono, c’erano già un’altra diecina di ragazze, qualcuna cercò di dirmi qualcosa, ma a quel tempo non riuscivo comprendere quello che mi dicevano. Fui tenuta li per 13 giorni senza che avessi potuto avere notizie di mio padre.
Da qui fummo condotti nella prigione Coroneo di Trieste. Qui fu un vero incubo. Prima ero terribilmente spaventata, ma era niente rispetto all’orrore che sperimentai in questa prigione. Fui portata al piano superiore e sbattuta in una cella, assieme ad altre due donne. Esse erano più anziane di me e mi dissero che erano partigiane che avevano combattuto, ed erano state imprigionate per le loro idee politiche. Io ero sbalordita, e non capivo perché fossi capitata tra questo tipo di gente. La cella era buia, il pavimento umido e sporco. Io sedetti accanto alle donne e incominciai a piangere. Sentii un rumore e qualcosa mi sfiorò la gamba, vidi un topo ed altri topi nell’angolo lontano. Io gridai e saltai su, cercando si scappare da questa raccapricciante visione. Le donne cercarono rapidamente di calmarmi, raccontandomi le loro vicissitudini. Io ascoltai, e per la prima volta mi resi conto di essere prigioniera, una “prigioniera politica di guerra”, e che sarò tenuta come ostaggio!
Cosa succederà adesso? Quali sensazioni cominciavo a sentire? Ribellione! Odio! Collera! Una forza incredibile cominciò a sorgere in me, una forza che mi dava le risorse per la sopravivenza, per controllare le mie vere emozioni, i miei veri sentimenti.
Immediatamente mi resi conto quale fosse questa forza. Dio era con me. Il suo amore era con me, ed io questo lo compresi bene.
Udimmo il rumore di pesanti passi che salivano le scale, passarono davanti alla mia cella e si fermarono davanti a quella accanto. Le porte si aprirono e si rinchiusero, altri passi, poi silenzio. Dopo un po’ udimmo, ad intervalli, urla penetranti ed strazianti. Ci sedemmo sbalordite, senza parole. Un sudore freddo ed una penetrante paura ci pervase. Ore dopo sentimmo ancora il rumore dei passi pesanti che si fermarono nella cella accanto, le porte si aprirono e si chiusero. Le donne corsero allo spioncino della porta e chiesero “cosa è successo?” Qualcuno rispose che una delle ragazze era stata portata nei sotterranei per l’interrogatorio ed era stata torturata. Era stata appesa con la testa in giù, le gambe le erano state divaricate, ed un palo le era stato conficcato nel corpo, fino a farla morire dissanguata.
Il giorno dopo circolarono voci che i partigiani avevano ucciso dei soldati tedeschi. Per rappresaglia i tedeschi fucilarono dieci partigiani. Dopo questo fatto i tedeschi stabilirono che per ogni soldato tedesco ucciso, sarebbero stati fucilati 10 partigiani scelti a caso tra noi prigionieri. Cominciai ad assorbire questo primo impatto con la guerra, ed incominciai ad organizzarmi in qualche modo per conservare il più a lungo possibile la mia esistenza, la mia salute.
Queste disposizioni divennero per noi un incubo, e pregammo che ci togliessero da questa situazione, magari destinandoci ai lavori di trasporto di materiali, di cui avevamo sentito parlare, soprattutto per poter lavorare e non conoscere quello che stava avvenendo in queste terribili prigioni. Passarono circa cinque giorni e noi fummo portate fuori nel cortile e poi all’esterno per un trasporto.
Un giorno fummo portate ben scortate fino alla stazione ferroviaria, dove due treni erano in attesa per imbarcarci. Nell’avvicinarmi a uno dei treni, vidi un gruppo di uomini che veniva portato all’altro treno. Io cercai con lo sguardo tra i prigionieri e intravidi tra loro una bella faccia: era mio padre! Signore Iddio! In quel momento io non pensai ad altro che a correre verso di lui e ad abbracciarlo. Egli mi vide e tutti due corremmo, uno verso l’altro con le lacrime che ci scorrevano giù dal viso, rischiando anche di creare brutali reazioni a questo inaspettato spettacolo. Fummo brutalmente separati e spinti ciascuno verso il proprio gruppo. Fummo imbarcati su vagoni bestiame di un treno merci. Poco prima che le enormi porte venissero chiuse, alcune ragazze si diedero da fare per passare alcuni biglietti a del personale ferroviario, da far pervenire ai parenti; anch’io scrissi un bigliettino e lo diedi ad una persona, con preghiera di farlo pervenire a mia madre. Non avendo francobolli, ho sperato che la persona si fosse fatta carico per me della spedizione. La persona a cui diedi il biglietto aveva un aspetto gentile, triste e sbalordito dello spettacolo a cui stava assistendo.
Quest’uomo, vedendoci fatte prigioniere, ed imbarcate forzatamente nel treno bestiame verso una destinazione sconosciuta, fu preso da un sentimento di disperazione e sentì l’esigenza di cogliere l’occasione di fare qualcosa per noi. Io pregai per lui e per la salvezza della mia piccola lettera a mia madre. Ho saputo che quest’uomo ha spedito la lettera che è arrivata a mia madre.
A Neresine, alla Messa domenicale, il parroco ha annunciato ai fedeli di trattenersi in chiesa, dopo la Messa, perché aveva qualcosa di importante da comunicare: lesse a tutti la letterina che avevo scritta a mia mamma. Questo fatto ha provocato un grande dolore e lacrime tra i presenti e in tutta la popolazione del paese.
Questa è la lettera scritta in italiano alla mamma.
“Carcere Coroneo. Trieste 27 – VI - 1944
Mia cara mamma!
Mi sembrano già anni che non ti vedo. Quando verrà il giorno che potrò riabbracciarti così forte da farti arrabbiare? Ti prego di non avvilirti, sopporta tutto per me, come pure io faccio qualunque sacrificio, perché un giorno presto potrò avere la compagnia della mia cara mammina, per la quale soffro terribilmente, sapendo che lei avrà costante il pensiero tormentoso per i due che le sono tanto lontani, ma così vicini al cuore. Mamma, soltanto coraggio e pazienza ci vuole.
Mamma, non ho mai capito cosa sia esser senza di te. Ora comprendo il significato di questa amata e dolce parola “mamma”.
Fatti coraggio, perché sapendo che tu sei forte, anch’io sarò meno triste.
Prega per me, cara mamma. Abbi fede che io tornerò presto, così spero mi aiuterà la Madonnina.
Papà pure viene con me, io gli do coraggio e lui lo da a me.
Ora infiniti baci ed un augurio di rivederti presto. Baci a tutti, zii, zie, cugini, amici, tua Elsie.
Abbiamo ricevuto notizie che partiamo per Germania”.
V
LA PECORELLA SMARRITA
(Il titolo è in italiano)
Le porte furono chiuse e sbarrate con chiavistelli. Era buio pesto, eccetto per una piccola finestrella sbarrata. Io feci in modo di sistemarmi vicino a questa apertura e di non lasciare questa posizione per tutto il viaggio. Non osavo sedermi o coricarmi nel timore di essere calpestata. Il vagone era affollato, il calore era asfissiante, era difficile perfino respirare, la fame e la sofferenza cominciò ad annebbiarmi la vista. Avevo la bocca secca. I buglioli per orinare erano stracolmi e fuoriusciva tutto attorno il liquido. La puzza era diventata insopportabile. Il treno attraversò la Jugoslavia, l’Austria, la Cecoslovacchia, la Germania e infine arrivammo in Polonia. Io rimasi sveglia pressoché per tutto il viaggio, avevo paura di addormentarmi per non venir calpestata, d’altra parte senza mangiare era difficile fare qualunque cosa. Feci in modo di guardare le città verso cui ci stavamo avvicinando, ma non ci fermammo mai. Continuammo così per 5 giorni. Ci fermammo a Salisburgo ed a Vienna a causa di bombardamenti. Le bombe ci cadevano attorno con fragori di tuono e lampi di luce. Finito il raid aereo, proseguivamo il viaggio.
Era quasi il tramonto quando arrivammo alla nostra destinazione. Le porte furono aperte e la gente cominciò ad accalcarsi per uscire, ma fummo rapidamente trattenuti indietro. Sul marciapiede vedemmo per la prima volta, malamente accatastati in terra, quelli che non erano riusciti a sopravivere al viaggio. La puzza e la sensazione della morte aveva pervaso ogni cosa, perché durante il viaggio non ci era stato permesso di lasciare il vagone, e quelli che morivano erano lasciati lì dov’erano. Eravamo stati ingabbiati peggio degli animali.
VI
IN TERRA STRANIERA: L’ORRIBILE RISVEGLIO
Come sono scesa dal vagone, vidi che la stazione era tenuta bene, con fioraie qua e là. Io presi la mia valigetta, ma ci fu detto di lasciare il bagaglio, perché ci sarebbe stato riconsegnato più tardi. Io seguii gli altri in colonna, verso la stazione, almeno questo era quello che a me sembrava. Entrammo in una grande sala, con specchi alle pareti e panche lungo il muro. In fondo al salone c’era una grande porta, che, come ho saputo dopo, portava ad una delle camere a gas.
Attendemmo per un po’, poi fummo di nuovo portati fuori sulla piattaforma, dove ci lasciarono ad aspettare ancora, per un numero infinito di ore. Finalmente ci portarono, poco lontano, in un altro grande locale con pavimento in cemento e grandi finestre. Ci fu detto di spogliarci e di mettere i vestiti in una catasta. Ci fu detto anche di mettere i gioielli e il denaro su un grande tavolo, sotto lo sguardo attento dei Komando.
Io non mi ero mai spogliata di fronte a nessuno, e qui mi fu ordinato di farlo, e di fronte a cosi tanti estranei! Ho avuto la sensazione di aver perso la mia mente e la mia dignità, ogni altra caratteristica umana. La collanina d’oro con la croce mi fu strappata, a mi fu tolto l’orologio d’oro e l’anello che mi avevano donato i miei genitori. Quando chiesi loro se potevo conservarli, mi risposero duramente che non ne avrei avuto bisogno, e di fare quello che mi era stato comandato. Essi mi spinsero in una fila che conduceva nel prossimo locale. Qui, con mio grande sbigottimento, fummo sottoposti ad un energico lavaggio e spruzzati con insetticida. Imbarazzo! Umiliazione! Infamità!
A questo punto eravamo pronti per la selezione, o quasi! No, prima un bagno caldo, caldo a vapore, poi una doccia gelata, che non ha fatto altro che aumentare la miserabile condizione in cui eravamo.
Fu formata di nuovo la fila di fronte a una stanza dove un ufficiale, parzialmente seduto con noncuranza su un tavolo, affiancato da due o tre accoliti, ci aspettava. Con un semplice schiocco di dita: “a destra” o “a sinistra”, egli segnò i nostri destini. Fummo quindi condotti nel reparto tatuaggi, dove ciascuno ebbe il suo numero scritto indelebilmente su braccio, cessammo di essere delle persone e diventammo animali marchiati!
Noi eravamo ancora nudi, aspettando gli indumenti che ci sarebbero stati dati. Io stavo gelando dal freddo in quella stanza umida. Alcune ragazze tentarono di mantenersi calde stringendosi le une alle altre, ma subito compresero che ciò non era permesso, in quanto furono percosse dal di dietro con potenti colpi alla testa e nel corpo. Il sangue cominciò a fluire dalla testa di una ragazza che era caduta a terra, ma nessuno osò muoversi per soccorrerla. Verso l’alba gli indumenti erano pronti, e ci fu detto di indossarli velocemente. Ricevemmo delle uniformi a strisce grigie e blu, che puzzavano di sostanze chimiche, ed erano ancora umide. Da qui fummo mandate nelle baracche a cui eravamo destinate. L’edificio era semibuio, aveva giacigli di pietra, pavimento fangoso, ed era sovraffollato di prigionieri. Il mio cuore sprofondò, volevo urlare, e correre… correre… correre…, quanto più veloce potevo!
Nei giacigli dormivamo in 6 o 7, le teste di une contro i piedi di altre, non c’era nemmeno lo spazio per muoverci. C’erano prigionieri di tutte le nazioni europee che erano state occupate dei Tedeschi, in stragrande maggioranza Ebrei, si sentivano parlare tutte le lingue, purtroppo a me sconosciute, cercai di aggregarmi agli Ebrei Italiani perché parlavano la mia stessa lingua; non c’erano tra noi prigionieri né Inglesi, né Americani. Il risveglio avvenne alle 3 del mattino col grido:” zahlappel, raus sufstehen, mach snell …”.
All’esterno fummo allineate in file per essere contate, e ricontate, finché i conti non tornarono. Era molto difficile stare fermi sull’attenti per così lungo tempo. Molte svennero, perché troppo deboli, affamate o esauste. Molte morirono in questo modo.
Fummo condotte alle latrine, una fila di buchi scavati in terra, ciascuna di noi doveva fare in fretta, perché ci davano solo pochissimo tempo. Il lordume, il fetore, la sporcizia, ci costringevano a fare i nostri bisogni e scappare il più in fretta possibile, non c’era altra possibilità. La dissenteria era ovunque. Acqua inquinata, tifo, polmonite, pidocchi, tutto contribuiva alla soluzione finale.
VII
SIGNORE, DAMMI LA FORZA!
Auschwitz, era proprio il luogo perfetto per un campo di concentramento. Il terreno era ubicato in un avallamento piatto, privo di pendenze per il drenaggio dell’acqua. C’erano enormi pozzanghere d’acqua. Un grande avallamento fangoso, l’acqua era stagnante, l’aria malsana: il posto ideale per un campo di concentramento!
Fummo condotte al lavoro. Il nostro lavoro consisteva nell’impastare il cemento, posare mattoni, e costruire delle strade. Spingevamo carriole piene di sabbia e grosse pietre lungo un tracciato, molto accidentato per la sporgenza di grossi massi, sperando di non uscire dal tortuoso sentiero, col rischio anche di rimanere sotto la carriole ed essere schiacciate dallo stesso carico; facevamo sforzi disperati per rimanere nella carreggiata. Le mie mani sanguinavano spesso, diventai molto debole. Questo lavoro lo facevo tutti i giorni.
Con gli urli dei carcerieri di “mach snell”, ed i continui spintoni e botte, eravamo costretti a lavorare con più lena, io ho dovuto fare un enorme sforzo per cercare di lavorare più in fretta. Un giorno, durante questo infernale lavoro, ad un certo punto un guardiano mi colpì nella schiena e nella testa, traballai, cercai di non cadere, mi raddrizzarmi subito, immediatamente sentii che l’orecchio si otturava, mi sembrò di essere diventata sorda, girai velocemente la testa e sentii il sangue sgorgare dall’orecchio e dal naso. Mi girai e cercai di asciugarmi in qualche modo il sangue per non far vedere che ero ferita.
Quella notte fu tanto lunga e dolorosa, divenne insopportabile. Raccolsi tutte le mie forze e pregai Iddio di aiutarmi a sopravivere, di farmi passare la notte, e di aiutarmi affinché la mia speranza di ottenere la libertà non fosse troppo lontana.
La ferita al mio orecchio fu molto dolorosa e le fitte acute non mi fecero dormire tutta la notte, a cui si aggiunse anche il mal di denti. Il mio mal di denti mi preoccupò per alcune settimane. Non potevo né dormire, né lavorare, pensai quindi di chiedere di essere portata in infermeria. Mi portarono, mi fecero sedere in una sedia, due soldati mi tennero stretta, bloccata alla sedia, mi strapparono il dente malato senza alcuna anestetico. Mi sentii come se mi avessero strappato tutte le interiora. Quando mi lasciarono andare, uscii che barcollavo, mi appoggiai al muro con la paura ed un dolore straziante che cominciavano a sopraffarmi. Il desiderio di andare via da quel luogo mi portò nella baracca in condizioni di sbalordimento totale.
Più tardi seppi che i nazisti avevano affidato a dei criminali professionisti il compito di curare l’organizzazione e la disciplina del campo. Ladri, prostitute, rapitori, assassini, questa gente eseguiva bene i loro ordini, imponendo severe punizioni a coloro che osavano opporsi.
Nel campo c’erano Belgi, Italiani, Ucraini, Russi, Polacchi, Jugoslavi, Cecoslovacchi, Zingari, ed altri confinati. Io credo, comunque di essere stata l’unica ragazza americana li dentro. Milioni di loro furono uccisi nelle camere a gas e bruciati nei forni crematori. La maggioranza di loro non sarebbe più tornata e non avrebbe più parlato.
Lo stare fermi all’appello della mattina era molto duro da sopportare. Molti sono morti mentre stavano per ore fermi ad aspettare che la chiamata terminasse. Molte volte ci tenevano per ore sotto la pioggia: i vestiti inzuppati, i piedi sprofondavano nel fango.
Molte volte alcuni prigionieri non si ricordavano più a quale gruppo appartenevano, allora ci facevano stare fermi per ore, finché non si trovavano i gruppi di appartenenza giusti. Io chiedevo a Dio di aiutarci, e che facesse in modo che questa terribile condizione finisse presto e che ci ridesse la libertà.
Un giorno fummo selezionate per fare dei lavori di trasporto materiali, e mentre eravamo nella baracca in attesa di questo nuovo lavoro, sentimmo che tre donne del campo si erano impiccate. Benché non sapessi dove fossimo destinate per questo lavoro, io non vedevo l’ora di lasciare questa casa dell’orrore e della morte. Finalmente il nuovo lavoro di trasporto arrivò, ed io fui messa alla costruzione di un muro di mattoni: bisognava costruire nuove baracche!
VIII
LA SVENTURATA NON PIANGE
Un bel giorno, verso la fine di gennaio 1945, fummo caricate su un autocarro per trasporto bestiame e spedite verso una destinazione sconosciuta, viaggiammo senza fermate per tre giorni. Nel passare attraverso paesi e città, notammo che la distruzione era evidente ovunque. Dove una volta c’erano le case, ora rimanevano soltanto gusci vuoti. Lungo le strade ingombrate di macerie, vedevamo tra le rovine, corpi di civili e militari straziati dai bombardamenti. Ogni volta che le sirene annunciavano nuove incursioni aeree, e le bombe piovevano dal cielo tutt’intorno, ci fermavamo. Io pregavo il Signore che ci aiutasse ed uscir vive da questo disastro.
Arrivammo all’ultima fermata, udimmo che alle porte del camion venivano tolti i chiavistelli. Eravamo arrivate a Ravensbruck, che era il più grande campo di concentramento femminile nazista. Come entrammo, vedemmo che l’aspetto era piacevole, con alberi di pino ed un lago poco distante. Il panorama cambiò immediatamente quando ci apparve alla vista il grande muro di cemento del campo e i reticolati di filo spinato che lo circondavano.
Neri figuri piombarono sbraitando su di noi come sinistri avvoltoi, accompagnati da cani poliziotti abbaianti. Anche Ravensbruck era un posto paludoso, vicino a Furstenberg, circa 50 chilometri da Berlino, qui venivano tenuti gli schiavi per lavorare negli stabilimenti industriali elettrici, chimici, e siderurgici della Siemens, ubicati nelle vicinanze.
È stato stimato che circa 120.000 donne sono passate attraverso quest’inferno e solo poche sono sopravissute.
Negli ultimi giorni di guerra, a mano a mano che l’Armata Rossa avanzava verso i luoghi dove si trovavano campi di prigionia nazisti, i Tedeschi organizzarono enormi trasporti di donne verso Ravensbruck.
Qui eravamo di nuovo tra sporcizia, pulci, pidocchi ed epidemie di tifo. I corpi dei prigionieri morti venivano lasciati dove erano caduti, in mezzo agli altri, e soltanto durante la notte venivano portati nei forni crematori.
Ci portarono allo “spidocchiamento” e alle docce. Ci furono date altre uniformi a strisce grigie e blu, senza alcun abbigliamento intimo, e ci mandarono nel reparto di quarantena lasciandoci a piedi nudi.
Tutti i prigionieri portavano sull’uniforme un contrassegno di stoffa triangolare di diversi colori, che indicavano la ragione dell’imprigionamento. Il colore rosso era per i nemici politici; il colore nero contraddistingueva le prostitute e quelle che rifiutavano il lavoro; porpora era il colore degli studenti della Bibbia ed i testimoni di Jehova; il verde dei criminali comuni; giallo era il colore degli gli Ebrei; giallo e nero era il colore di quelle che avevano offeso la razza (quelle che avevano sposato Ebrei, cosa questa proibita dalla legge in Germania).
A me fu assegnato il triangolo politico di colore rosso, che cucii con filo rosso, fattomi prestare da una ragazza mia compagna, sul quale io aggiunsi le lettere USA. Ero orgogliosa di mostrare le mie origini, il mio paese, con bruciante amore e con la speranza di poter ancora posare i piedi nell’amato natio suolo.
Fummo portate nel reparto di quarantena N° 24, che poteva contenere 1.000 donne. Le baracche erano già affollate di altre prigioniere. I giacigli a castello erano pieni, ed io fui la decima di una di quelle all’ultimo piano. Non ci fu dato da mangiare, solo l’acqua dai lavatoi, quando era permesso di andarci. C’erano donne di tutte le nazionalità, e potevano essere udite tutte le lingue. Il rumore era così forte, che era impossibile riposare e meno che mai dormire, con grande difficoltà ricevemmo qualcosa da mangiare.
Rimanemmo li per un mese, e non ci fu permesso di uscire, tranne la mattina per l’appello quotidiano. Sono sicura che se avessi dovuto stare per un tempo più lungo in queste condizioni, non sarei sopravissuta. Alla fine diventai molto debole. Piaghe si formarono nei miei piedi nudi e nei polsi, e diventarono infette. Non erano disponibili medicamenti, ma feci amicizia con una ragazza polacca, che era infermiera nel suo paese, e lei mi diede alcune creme medicamentose, che mi giovarono.
Il periodo agonizzante della quarantena durò 27 giorni, prima che ci assegnassero al reparto successivo. Il risveglio mattutino era lo stesso come dalle altre parti, con la solita trafila: zahlappell e quindi al lavoro.
Io fui scelta per lavori nel bosco. Ciascuna di noi doveva prendere un badile, un piccone o una sega, poi venivamo portate fuori e imbarcate su un camion. Il viaggio ci sembrava piacevole, per lo meno potevamo respirare dell’aria fresca e vedere un po’ di verde. Si arrivava a destinazione a giorno inoltrato, si prendevano i nostri attrezzi e si incominciava ad eseguire il lavoro assegnato, con una breve sosta, in cui ci davano una specie di zuppa, che io proprio non potevo mangiare. Il mangiare era talmente scarso e sgradevole che per nutrirci in qualche modo, strappavamo le erbacce lungo i recinti e mangiavamo le radici.
Prima ci ordinarono di abbattere alberi e rami, che poi tagliavamo in piccoli pezzi con la scure. Ritornavamo al campo che era già buio, ci mandavano nelle nostre baracche, non prima di essere state sottoposte al solito snervante appello; poi ci davano un pezzo di pane duro e nero, un pezzo di margarina, e qualche volta un po’ di salsa.
Durante la notte sentimmo urli di terrore. Venimmo a sapere che un’altra donna si era impiccata. Fu ben duro tornare a dormire dopo questo fatto!
Il mio pensiero fu: “quanto avrà sofferto quella poverina, e per quanto tempo ancora potremo noi sopportare tutto questo?”
La mattina seguente la chiamata dell’appello fu lunga, non tornava il conto dei prigionieri, e durò fino alla sera. Qualcuno aveva tentato di scappare. Noi fummo puniti per questo fatto più volte, con la sospensione della somministrazione della razione di cibo e col essere costretti a stare fuori in piedi alla chiamata per delle ore.
Il giorno successivo fummo ancora una volta portati bel bosco, io non ho più voluto guardare il panorama, per non dover ancora maggiormente soffrire al ritorno nel campo. Fummo comandati di scavare dei grandi buchi poco lontano. Io mi meravigliai: “ma quali enormi alberi avranno da piantare in buchi così grandi?”
Ritornammo al calar della notte e udimmo altri che continuavano a scavare altri buchi non lontano da noi. Ci fu detto che, quando la circonferenza dei buchi sarà grande abbastanza da contenere tutti loro, li avrebbero allineati lungo il bordo, e avrebbero sparato su di loro gettandoli dentro e poi ricoperti con la terra nella fossa comune.
Mi sentivo malata, debole, sull’orlo di un attacco isterico. Il giorno dopo fui prelevata per un altro lavoro. Io fui grata per questo, ma ancora una volta non sapevo che genere di lavoro sarebbe stato, qui non si poteva essere sicuri di niente.
Si viveva giorno per giorno, preoccupandoci se saremmo riusciti ad arrivare alla fine della giornata, e col terrore di quello che ci avrebbe riservato il giorno successivo.
Fui assegnata alla costruzione di un muro di mattoni all’estremità del campo, il che consisteva nel impastare cemento e portare carriole piene di sabbia. A un certo punto suonarono le sirene, e noi fummo immediatamente fatte rientrare nell’edificio vicino, e non ci fu permesso di uscire. Essi sprangarono le porte e chiusero le finestre. Poiché non era in atto un bombardamento, ci rendemmo conto che era in atto un nuovo trasferimento di prigionieri. Queste baracche erano più vicine alla stazione ferroviaria di quelle dove noi normalmente vivevamo, e gli urli ed i gridi si sentivano molto più chiaramente. Sbirciammo dalle finestre sbarrate e vedemmo quello che accadeva: alcuni bambini urlanti venivano trascinati via, mentre altri venivano percossi. Non ci volle molto a capire quale fosse la loro destinazione… Pensai che se mai avessi avuto un bambino, nessuno sarebbe riuscito a strapparmelo dalle braccia!
Dopo alcune ore riprendemmo il lavoro. La zona improvvisamente si oscurò per un intenso fumo, e la nauseante puzza di carne bruciante fu più forte di quanto chiunque avrebbe potuto sopportare.
Quella notte, nel salire nel giaciglio all’ultimo piano, mi ferii nell’ascella, cosa questa che mi provocò un grande gonfiore. Poi la ferita si infettò e incominciò a formarsi del pus, io cercai di pulirla il meglio che potevo, terrorizzata che i pidocchi potessero installarsi in essa. Rimasi sveglia perché sentii i pidocchi che camminavano sul mio corpo. Mi resi conto di aver la febbre: un minuto ero calda, un minuto ero gelata.
Il giorno successivo il peso della fatica diventò insopportabile. Il trasportare cemento, lo spingere le pesanti carriole negli stretti tracciati, il trasportare pesanti e taglienti pietre, provocarono vesciche e tagli nelle mie mani provocando sanguinamenti. Mi sentivo come se dovessi morire in quell’istante ed in quel momento. Coraggiosamente trovai la forza di reagire e di ritornare nella baracca. Mi imposi di pensare … forse domani … forse presto … saremo libere.
Fui scelta per un lavoro al di fuori del campo, questo mi portò un senso di sollievo. Ci misero in colonna e ci fecero marciare in gruppi fuori dal cancelli, passando davanti alle case col rigido comando di “left, left, left, (un, due, un due, un due) scandito dai soldati Tedeschi e Kapo, accompagnati anche da feroci cani che ci scortavano. Fummo condotti in fabbriche private. Io venni messa a lavorare come aiutante nella costruzione di chiusure per kiskets (contenitori per bombe, che venivano spediti nei vari fronti di guerra). Aiutavo quelli che lavoravano con l’incudine e il ferro caldo. Ammucchiavo anche il carbone per il treno che veniva qui per caricare le merci prodotte. Lavorai ad impilare pesanti tavole di legno nel magazzino dei legnami e mi fecero fare molti altri lavori.
Spesso queste fabbriche venivano bombardate, udivamo il rumore degli aerei, ma molte volte era troppo tardi per ripararsi in un posto più sicuro, molti prigionieri non tornarono più da queste fabbriche.
Al ritorno, marciando come al solito, rientravamo giusto in tempo per il fatidico appello chiamata di controllo, poi una razione di zuppa e un’altra notte insonne.
Un giorno fummo mandate nel reparto infermeria-ospedale per una iniezione ed esami medici. L’iniezione ci fu fatta nella parte superiore del petto, poi attendemmo in fila per entrare nella stanza degli esami. Quando fui entrata, mi fu detto di sedere su una strana sedia e di mettere i piedi su dei larghi braccioli. Io non avevo mai visto una sedia simile e fui terrorizzata da quello che avrebbe potuto succedermi. Fui rigidamente tenuta ferma e sentii in acuminato strumento entrare dentro di me. Sentii come un taglio. Sentii la testa girare. In pochi secondi fui rilasciata, ma una volta fuori dalla porta, il cuore cominciò a battere precipitosamente. Mi sentii nauseata, sofferente e terrorizzata. Volevo sparire, nascondermi, correre da qualche parte, ma dove? Ritornai alla mia baracca per aspettare il mio prossimo fatale destino. Ero disperata, parlando con le mie compagne di sventura mi resi conto che ero stata sottoposta ad un trattamento di sterilizzazione. Non avrei più potuto avere figli!
Ho saputo poi, dopo la liberazione, che l’intervento a cui fui sottoposta era effettivamente la sterilizzazione, come studiata ed organizzata dal famigerato medico Josef Mengele. Per me questa condizione è stata per anni il mio incubo, non riuscivo a sentirmi una donna normale, mi sentivo come se mi avessero strappato un pezzo dell’anima. Ho pregato tanto il Signore, e questa volta mi ha davvero ascoltato: grazie Lui, ne sono convinta, l’intervento di sterilizzazione su di me non ha avuto effetto, ed io potuto avere il mio caro figlio Ronnie.
Fui assegnata a lavorare in cucina, nella preparazione del pasto della sera per i detenuti. Ritornavo esausta nella mia baracca dopo mezzanotte per un breve riposo e per essere svegliata per la solita adunata-appello ed essere poi selezionata per il prossimo lavoro. Quando ero fortunata, ritornavo nella baracca ad aspettare il lavoro serale in cucina. Se non ero fortunata, venivo mandata ad altro lavoro, salvo ritornare in tempo per il lavoro notturno in cucina, quindi, in questo caso, non potevo ne dormire ne riposare.
In uno di quei giorni, quando ero nella baracca in attesa del lavoro serale, ci fu una selezione, io mi nascosi per non essere chiamata e poi scappai attraverso una finestra nella baracca adiacente, dove, trovai dei prigionieri che parlavano in italiano, mi avvicinai a loro per comunicare finalmente con qualcuno in una lingua che conoscevo; con mia grande sorpresa, trovai in mezzo a loro una compaesana di New York, una italoamericana come me: era la sorella di Fiorello La Guardia, sindaco di New York, Gemma La Guardia Gluck. Fummo felici di incontraci, lei mi raccontò della sua vita, della terribile esperienza che stava attraversando; mi raccontò di suo marito, di suo genero delle figlie Irene e Iolanda e di suo nipote Richard. Mi raccontò di suo padre Achille, che era originario di Foggia, in Italia, e di sua madre che era nativa di Trieste. Anch’io le raccontai della mia triste esperienza. Da quel giorno, quando mi era possibile, sgusciavo di nascosto nella loro baracca per parlare un po’ e farci compagnia. Lei mi chiamò “la mia piccola figlia del campo” ed io la chiamai “zia Gemma”.
Dopo il mio ritorno a New York ci scrivemmo. Lei era ancora in Europa in attesa del passaporto per venire negli Stati Uniti. Quando infine arrivò, la andai a trovare, viveva fuori di New York. Fu un incontro molto commovente.
Quando lavoravo in cucina, fui assegnata, come aiutante, a mescolare le zuppe in degli enormi pentoloni. Per fare questo lavoro, stavamo in piedi su una piattaforma per poter ruotare meglio il grande mestolo, facendo attenzione che la zuppa non si attaccasse, o non si versasse, correndo anche il rischio di rimanere severamente ustionata.
Prima della cottura delle minestre, stavamo nel sotterraneo dove pelavamo le patate ed altri vegetali. Quel posto era brutto, buio ed umido, illuminato appena da piccole lampadine. Le patate e gli altri ortaggi erano gelati, portati in quel posto da degli autocarri, e spesso avevano odore e sapore di marcio.
Avevo le dita intirizzite dall’acqua gelata. I piedi, avvolti soltanto con vecchi stracci, erano gelati per lo stare posati per lunghe ed interminabili ore sull’umido pavimento. La disperazione e lo stato di ansietà mi spinsero a cercare una via d’uscita. Espressi il desiderio di parlare con l’ufficiale responsabile per chiedergli di sapere “perché una simile ingiustizia è stata commessa”. La Kapo cercò di dissuadermi per paura che trascendessi nel parlare, ma io fui determinata, alla fine la donna trasmise il mio messaggio all’ufficiale ed ottenne il per me permesso. Dopo un paio di giorni fui convocata. Quando andai dall’ufficiale, la donna mi abbracciò e mi baciò, pensando che non mi avrebbe più rivista. Accompagnata da una aufzurhring fui condotta ai piani superiori negli uffici del comando.
Entrai, e stando sull’attenti, mi presentai con il mio numero di matricola (questo era quello che dovevamo fare, perché eravamo diventati solo dei numeri) e chiesi la ragione per cui ero stata incarcerata. Io ero orgogliosa di essere Americana, la mio soggiorno in Italia, anche per assistere i miei nonni, in cattive condizioni di salute, non dava loro ragioni per infliggermi un cosi inumano trattamento ed attribuirmi il marchio di spia politica, tenendomi qui, in questo orrido posto come ostaggio.
Indirizzai questa mia domanda alla donna che era la responsabile di tutte le cucine e della sala da pranzo degli ufficiali. Lei era affiancata da due soldati e dalla poliziotta che mi aveva portato di sopra. Anche lei era tedesca, ma parlava fluente inglese, mi ascoltò in silenzio. Alla fine trovai il coraggio di sfidarla chiedendole cosa avrebbe provato se avesse avuto un figlio e questi fosse stato così ingiustamente arrestato e così duramente maltrattato. Io vidi che i suoi occhi si facevano tristi ed ebbi l’impressione che in lei era forse rimasto ancora qualche barlume di umanità. Alla fine mi diede una breve e incoerente risposta … Quando fui congedata, rimasi stupefatta del coraggio dimostrato nel parlare a questi carnefici. Ho potuto constatare dai loro sguardi e dalle loro espressioni, che li avevo in qualche modo impressionati. Una volta fuori dall’ufficio fui ricondotta dabbasso, le ginocchia mi tremarono, incominciai a sudare freddo. Ero contenta di ritornare incolume e mi abbandonai seduta. Durante l’intera conversazione, mi resi conto di essere stata ascoltata con molta attenzione. Le compagne mi diedero il bentornato con le lacrime agli occhi, perché erano convinte che non mi avrebbero più rivisto.
Passarono parecchi giorni e fui richiamata al lavoro, ma questa volta fu per lavorare in cucina per preparare da mangiare per il personale. Avevo per lo meno raggiunto l’obiettivo di non andare più nel brutto, umido, freddo e puzzolente sotterraneo a maneggiare gli ortaggi gelati. In questa cucina le pentole erano più piccole, ed il controllo del cibo e della pulizia era migliore. Poi sono stata assegnata a servire i pasti alla mensa dei soldati e degli ufficiali Tedeschi. Abbigliate con vestito nero, grembiule e berretto bianco, portavamo i piatti ai loro tavoli.
Erano in tanti, sembravano intelligenti e gentili, di buone maniere, alti e ben prestanti nelle loro uniformi militari. Il mio cuore era in agitazione. Ero terribilmente impaurita, sentivamo voci che dicevano che l’esercito Russo aveva incominciato ad invadere la Germania e si stava avvicinando, feci in modo che il mio pensiero fosse sempre più concentrato nella preghiera “forse … domani… saremo libere …”
Quando ritornai dalle mie compagne, e raccontai delle nuove mansioni a cui mi avevano assegnato, esse mi guardarono terrificate, ed io mi spaventai. Sentii una delle ragazze che diceva: “se ti scelgono per andare al loro servizio, puoi star sicura che non tornerai più, faranno di te quello che vogliono …” . Cercai di approfondire meglio con alcune mie compagne il significato delle parole che avevo sentito, ed esse mi rivelarono una terrificante verità: mi dissero che sceglievano le ragazze più giovani e carine, le sterilizzavano per non avere fastidi con gravidanze e le mandavano, nel bordello annesso al campo, per essere utilizzate come carne di piacere per i “guerrieri” nazisti. Questa rivelazione mi raggelo il sangue, ed ora anche il comportamento nei miei confronti della Kapo e delle altre compagne, quando sono ritornata dal colloquio con la direttrice dei servizi, mi chiarirono ulteriormente la mia condizione. Ero evidentemente stata selezionata per questo tipo di “servizio”! Non dormii tutta la notte pensando a quello che mi sarebbe potuto accadere e a questo punto capii cosa aveva spinto alcune delle mie compagne ad impiccarsi!
Il secondo giorno, dopo il ritorno dal sevizio nella mensa, domandai di essere esonerata da tale servizio e chiesi di essere lasciata in cucina durante l’ora pranzo, e di essere assegnata ad un’altra incombenza. Mi fu solo permesso di rimanere in cucina, comunque sentii che circolavano voci che erano sorti dei problemi nei miei confronti e che io, grazie al cielo, non sarei più andata a servire alla mensa.
Il mio desiderio di uscire fuori da questo inferno crebbe più forte ogni giorno che passava, e crebbe altrettanto forte il desiderio di scoprire la ragione del mio imprigionamento. Per me risultava del tutto pazzesco il comportamento dei Tedeschi, che mi avevano arrestata come spia politica, e che ora mi tenevano imprigionata come ostaggio. Volevo il mio rilascio da questa crudele punizione, e visto che mi fu concesso impunemente di parlare coi capi responsabili del campo, e che in qualche modo mi avevano ascoltato, fui determinata ad insistere per provare a trovare una risposta, parlando con qualcuno nelle alte sfere, soprattutto per cercare di scongiurare il mio eventuale trasferimento nel bordello del campo.
La sera, una ragazza che promise di trovarmi un libro di preghiere, in cambio della mia razione di cibo, si presentò, facemmo lo scambio: mi aveva portato un libretto di preghiere in italiano, intitolato “Massime Eterne”; non so come abbia fatto a trovarlo in quell’inferno, comunque quella sera io pregai intensamente, finché non tolsero le luci. Quel libretto di preghiere divenne il mio diario, in cui scrivevo i mie pensieri, i ricordi dei miei cari genitori e fratelli. Scrissi anche la data del giorno in cui entrai in possesso del caro libretto: era il 20 febbraio 1945. Quello fu l’unico oggetto personale che sono riuscita a portare con me nella liberazione, e che conservo ancora come una dei miei più cari ricordi.
La mattina seguente richiesi il permesso di essere portata dalle più alte autorità del campo, situate in una collinetta, al di fuori dei cancelli. Il permesso mi fu concesso e fui portata al quartiere generale, scortata da due soldati con cani dobermann. La stanza era vuota, eccetto un lungo tavolo con panche al centro, molte porte e nude pareti.
La tensione in me era altissima, cominciai a dubitare di aver fatto una cosa giusta a venire a confrontarmi con questa gente, che mi aveva trascinato qui. Una porta si aprì ed un ufficiale si avvicinò e sedette di fronte a me. Egli mi fece molte domande, ed io risposi nel modo migliore che potei. La sua risposta fu: “non c’è niente che può essere fatto”. E aggiunse: “come potrei io ritornare indietro da così tanta distanza, con le bombe che piovono ovunque ed uccidono tutti noi?”
Comunque gli domandai, cercando di impressionarlo, raccontandogli quello che esattamente sentivo, di fare in modo di liberare me e mio padre, considerando il grave errore commesso nell’imprigionarci. Egli mi promise di occuparsi della nostra faccenda.
Alla fine mi sentii sollevata per aver potuto finalmente avere l’opportunità di esternare i miei sentimenti. Mi sentii rinfrancata da questo incontro, ciò mi ha dato il tremendo coraggio di voler mantenermi in vita e di continuare a sperare la libertà.
IX
DOPO LA FINE, C’È ANCORA UN INIZIO?
Molti giorni dopo, quando già si cominciava a percepire la vicinanza dell’esercito Russo che avanzava, vennero alcuni uomini in uniforme a prelevarci; si avvicinarono a noi e ci spiegarono che erano Svedesi, che erano venuti per liberarci e portarci con loro in Svezia. All’inizio non li credemmo, ricordandoci che con altri trucchi simili erano venuti a prelevare delle ragazze, che poi non erano più ritornate; molte di noi furono prese dal panico diventando isteriche.
Tuttavia la inusuale gentilezza di questi militari, la dolcezza dei loro modi, lentamente incominciò ad aprire una breccia nei nostri cuori, ormai impietriti da tanta sofferenza e a poco a poco riuscirono a convincerci, guadagnandosi la nostra fiducia. Il loro comportamento era completamente diverso da quello a cui eravamo abituate. Ci furono dati dei biscotti, pezzetti di cioccolato, ed infine riuscirono a convincerci a salire sui loro autobus. Come salimmo, a ciascuna di noi fu consegnato un piccolo pacco con altri generi di conforto.
Guardammo in silenzio gli autobus muoversi, uscire dai grandi cancelli del campo, che si rinchiusero alle nostre spalle. Fu una cosa incredibile. Le nostre sensazioni non potrebbero essere descritte con un milione di parole. Non potevamo né piangere, né ridere, né gridare, né star zitte. Per un po’ rimanemmo letteralmente inebetite. Poi, gradualmente diventammo consapevoli della realtà. La speranza e la gioia entrò di nuovo nei nostri cuori, e la Croce Rossa Svedese diventò l’incarnazione della libertà, dell’umanità, dell’amore. Grazie al loro aiuto, ci fu permesso di ritornare di nuovo alla vita.
Ci furono lacrime, ci furono risa. Questo fu il momento meraviglioso che avevamo sempre sognato. Come mi sentivo in quel momento? Mi sentivo fluttuare in una bianca e soffice nuvola, per raggiungere lontano, lontano, il paradiso!
La strada che stavamo percorrendo era disseminata di soldati: morti, feriti, qualcuno camminava barcollando inebetito. I palazzi erano crollati in rovina. Si intravedevano corpi semi sepolti dalle macerie. Era uno spettacolo veramente pietoso.
La guerra, in quanto tale, è un orrore, e questi che incontravamo erano esseri umani, forse costretti a vivere un orribile incubo, come lo fu il nostro.
Improvvisamente suonarono le sirene e gli aerei furono sopra di noi, fummo invitate a scendere velocemente, ad allontanarci e a gettarci a terra coricate, senza muoverci. Assistemmo ad un bombardamento, e quando fu passato, proseguimmo il viaggio.
La città di Berlino che attraversammo, era in completa rovina: palazzi distrutti e macerie dappertutto.
Faticosamente percorremmo strade dissestate, attraversammo paesi distrutti, rovine e macerie, e finalmente raggiungemmo la Danimarca. Come passammo il confine, l’atmosfera cambiò completamente. La gente correva per venire incontro agli autobus, il sorriso illuminava i loro volti, avemmo la sensazione che aspettassero proprio noi. Non dimenticherò mai il bellissimo benvenuto con cui ci hanno accolto.
Ci fermammo davanti a una casa dove erano già apparecchiate delle tavole per noi. Sedute per il primo pasto decente, fatto in casa, le lacrime fecero parte del menu: non le potevamo trattenere più a lungo.
La gente era tanto dolce e gentile. Fu un drastico cambiamento. Venimmo a contatto con la gentilezza, e non sapevamo proprio come far fronte a queste meravigliose sensazioni, eravamo completamente disorientate. Ricordo che ci dissero di stare caute nel mangiare, perché il nostro stomaco, rattrappito da tanta fame, potrebbe non esser in grado ricevere del cibo abbondante.
Dopo che ci fummo rifocillate ed in qualche modo rilassate, salutammo i nostri ospitali amici e riprendemmo il viaggio diretti in Svezia. Il ricordo di questa gente e la sua generosità, rimarrà per sempre impressa nel mio cuore.
X
FINALMENTE LA LIBERTÀ
Quando arrivammo in Svezia, per prima cosa ci fecero fare una sauna, un buon bagno a vapore con doccia ristoratrice. Fuori ci aspettavano le autorità Svedesi, fotografi, operatori cinematografici e giornalisti. Tutti loro ci accolsero con gioia e ci diedero il loro sincero benvenuto. Fummo portate all’ospedale per le visite di controllo ed esami radiografici. Alcune ragazze furono trattenute in ospedale perché affette da dissenteria, tifo, tubercolosi e febbre. Le restanti furono portate in un grande negozio di indumenti (di cui non ricordo il nome), ci fu permesso di scegliere quello che volevamo, vestiti soprabiti, maglieria intima, calze scarpe, tutto quello che volevamo, e tutto donato dal proprietario del grande magazzino.
Sembrava un sogno. Non potevamo credere che tutto questo succedeva proprio a noi. Da qui fummo condotte a Malmo, al museo di Malmo, che avrebbe dovuto essere la nostra casa. Ci fu raccontato del Conte Folke Bernadotte, e dei suoi infiniti sforzi per tentare di fare un patto con Himler, in modo da poter contattare i prigionieri ed aiutarli, e la nostra liberazione era certamente il frutto della sua iniziativa. Questi ricordi svedesi sono una parte importante della mia vita. Io sarò per sempre grata alla gente che ho potuto conoscere lì e con cui ho vissuto, e gli amerò sempre, fino alla fine di miei giorni.
Il gruppo di ragazze liberate in questa circostanza, era composto da Francesi, Danesi, Inglesi, Norvegesi, Olandesi e Belghe, io era la sola Americana.
Al nostro arrivo al Museo, ci accolsero braccia aperte. Fummo tutte abbracciate e condotte in un luminoso ostello, con grandi stanze per ospitarci. Il pavimento era pulito, piccoli materassi, fresche e pulite lenzuola e quadri nelle pareti.
Il mattino successivo facemmo colazione nella caffetteria, poi esplorammo il museo ed i dintorni, era veramente un bel posto.
Alcune ragazze furono introdotte in gruppi di amici, aventi caratteristiche culturali affini. Anch’io fui introdotta nel gruppo di questi amici.
Fu avvertito il console americano, ed il giorno successivo venne trovarmi. Mi sembrava di essere in paradiso. Ero così felice di averlo incontrato! Dopo colazione ritornai nella stanza dove dormivo, e nel cuscino trovai una bandiera americana. Mi inginocchiai e la baciai! Mi resi conto che era tutto realtà. Tornerò a casa finalmente!
Alcune famiglie si offrirono di ospitare delle ragazze, qualcuna accettò la gentile e calda ospitalità famigliare, altre scelsero di rimanere ancora unite ed aspettare insieme notizie dai propri genitori.
Il Consigliere Americano, sig. Reath Rigs, parlò di me ad una famiglia svedese, e mi chiese se volevo incontrarli e conoscerli. Io acconsentii.
Venne a trovarmi una giovane signora, si chiamava Gail, ed era un’americana di New York che aveva sposato uno svedese ed era venuta a vivere qui con la sua famiglia. Ero contenta di conoscerla ed immediatamente mi è piaciuta. Stavamo insieme molto bene. Mi venne a trovare molte altre volte e alla fine mi chiese di venire a vivere con loro.
Fui molto contenta, non perché non mi sentissi a mio agio con le mie compagne al museo, ma, prima o poi, avremmo comunque dovuto separarci, e poi, dopotutto, il calore di una casa, di una famiglia, dopo tanta sofferenza, mi attraeva. Furono fatti tutti i preparativi e Erik Ackerman, il marito di Gail, venne a prendermi. Dopo tante lacrime di saluto e abbracci con le mie compagne, lasciai il museo. Io, una volta ancora provai un certo timore, non sapendo dove e con chi avrei dovuto vivere.
Fu un bel viaggio, con belle campagne, spazi aperti, tanti alberi, fiori e ampie strade. Il viaggio durò circa un’ora e mezza, infine arrivammo nei loro possedimenti di campagna in Ugglarp Alstad, Lickan.
XI
AMORE E UMANITÀ
Entrammo nella loro proprietà attraverso un grande cancello di ferro, contornato da cespugli fioriti e siepi curate. Al di là del cancello ci apparve una bellissima casa, circondata da alberi rigogliosi. Allineati di fronte alla casa stavano: il patriarca della famiglia e proprietario sig Ackerman (suocero di Gail), i suoi quattro figli, e loro famigliari, servitù e giardinieri. Mi sentii come la principessa delle favole che arriva al castello. Quando scesi dall’automobile, il sig Ackerman mi venne incontro e con le braccia spalancate e con un largo sorriso mi disse: “benvenuta a casa figliola”. Come mi abbraccio e mi baciò sulle guance, io scoppiai in lacrime. Tutti loro mi abbracciarono e mi baciarono e poi mi accompagnarono dentro casa. Per mettermi maggiormente a mio agio, mi presentarono tutti i componenti della famiglia e poi mi portarono a visitare la casa ed i terreni circostanti. Le stanze eleganti erano finemente decorate con folti tappeti e quadri sulle pareti. I terreni circostanti la casa erano così ben strutturati e così curati che rimasi senza fiato.
La casa degli ospiti, il gazebo ed il laghetto apparivano molto invitanti. Mi fecero assaggiare le fragole e gli ortaggi coltivati nei loro orti, e mi fecero fare un giro per vedere gli alveari, da cui ricavavano il loro miele. Trovai questo molto interessante, come i loro bellissimi cani da caccia. La mia stanza, nella casa degli ospiti, era magnificamente decorata ed generosamente arredata, così come le altre stanze. Fui trattata come un membro della famiglia.
Il sig. Ackerman mi disse che ha sempre desiderato avere una figlia, dopo quattro maschi, e che per lui sarebbe stato un onore se avessi accettato di diventare per lui, la figlia che non ha mai avuto.
Io fui molto orgogliosa e felice di questo bellissimo pensiero, ed effettivamente gli volli bene come a un padre, ma il mio pensiero andava sempre alla mia famiglia, di cui non avevo più saputo nulla dall’inizio della mia tremenda vicenda.
Dopo il mio arrivo in Svezia, la Croce Rossa Svedese notificò alle autorità competenti la mia presenza ed il Governo Svedese si diede da fare per individuare i miei genitori e parenti. Vennero contattate le Croci Rosse delle nazioni a cui appartenevano le prigioniere, nel mio caso fu contattata la Croce Rossa Americana e quella Italiana.
Poco dopo il mio arrivo fu organizzato un ricevimento in mio onore per presentarmi alla loro cerchia di amici e per darmi il benvenuto ufficiale. Erano presenti le persone più in vista del paese, banchieri, uomini d’affari, dottori, avvocati e loro mogli. Ho pienamente goduto ogni minuto di questo ricevimento.
In un’altra occasione incontrai il Chirurgo Comandante R. N. Mats Haigan, che mi onorò dell’insegna che portava sul bavero della sua giacca. Io e Gail, andammo a trovare molti dei suoi amici. Andammo a fare compere, pranzare e prendere il tè pomeridiano con loro.
Furono fatti preparativi per la grande festa di gala della stagione, un gran ballo.
Gail mi prestò uno dei suoi vestiti ed alcuni suoi gioielli da indossare per l’occasione. Come mi fui vestita, non potevo credere di essere io quella che vedevo riflessa nello specchio, soprattutto ricordando la cenciosa tunica che indossavo nel campo. Il salone da ballo era ornato con bellissimi festoni, eleganti decorazioni, candelabri e quadri. Per il ballo iniziale l’orchestra suonò un valzer, ed io fui scelta per il primo ballo.
Era un sogno? Mi sentii come se mi fossi svegliata lontano, su una nuvola, mi venne da pensare a Cenerentola ed al suo Principe Azzurro. Ben presto tutti gli altri si unirono nelle danze. Per me iniziò una serata di puro incanto!
Seguirono altri piacevoli avvenimenti ed esperienze che non potrò mai più dimenticare. Tutti furono così meravigliosi con me, che una parte di me resterà sempre con loro.
Ci vollero quasi nove mesi affinché la Croce Rossa Italiana e quella Americana rintracciassero tutti i miei parenti. Ben presto dall’Italia arrivarono notizie che di mia madre era stata ritrovata, era viva anche se in cattive condizioni economiche e di salute. Poi arrivarono notizie dai miei fratelli, entrambi stavano bene.
Iniziai le pratiche per fare le carte necessarie per ottenere il passaporto per ritornare a casa, in America. A casa finalmente dopo tutte queste tragedie e questi traumi!
La partenza fu fissata il 10 dicembre 1945, dal porto di Halsingborg, con la nave svedese “Stig Goethon”. Era il viaggio inaugurale della nave. La nostra destinazione era Baltimora nel Maryland, il nostro arrivo era previsto attorno a Natale.
Era un giorno triste quando lasciai la sola, vera famiglia che ho conosciuto in quel periodo, la famiglia che mi ha accolto tanto teneramente a con tanto amore. I figli di Gail ed Erik, Agneta e Steffan, erano per me come sorella e fratello. Li ho aiutati a mangiare, vestirsi, li ho portati a passeggiare nel parco. Ricorderò per sempre il bel periodo passato insieme a loro.
XII
L’OCEANO ATLANTICO
Nella nave, sola nella mia cabina, il pensiero di attraversare il tempestoso Oceano Atlantico Settentrionale, in pieno inverno, a così dopo poco tempo dalla fine della guerra, mi procurò una certa preoccupazione. I miei pensieri vagarono indietro, verso i viaggi che avevo fatto con i miei amati genitori, Quanto siamo stati felici insieme e quanto, poi, insensatamente, ci hanno separati. Dove sono adesso? Potrò ancora rivederli? Il pensiero di quanta distanza ci fosse ancora tra noi diventava insopportabile. Abbiamo vissuto rubando il tempo alla vita per così lungo tempo. Perché, oh, perché, dobbiamo soffrire così tanto!
Mantenendo ferma la mia fede, ho invocato Dio di darmi la forza e di guidarmi nella giusta direzione attraverso il solitario viaggio che abbiamo davanti e di portarci sani e salvi al nostro unico amore.
Incontrammo tempeste e mare molto agitato. A cena quella sera, dovevamo tenere stretti, piatti bicchieri e posate. Quando eravamo seduti, le rollate della nave ci spingevano con grande forza da una parte all’altra, all’inizio la scena aveva qualcosa di comico, poi, col persistere della tempesta, accompagnata da una pioggia torrenziale, cominciai ad avere paura: non avevo mai provato una cosa simile.
Mi dissero che per dormire dovevo scegliere in cabina la cuccetta inferiore. La mattina seguente venni a sapere che l’ufficiale che occupava la cabina nel ponte superiore a quello dove stavo io, è stato malamente sbattuto a terra dalla sua cuccetta da un’enorme rollata. A questo punto mi considerai anche fortunata.
Il Comandante era preoccupato per il cattivo tempo e mandò un radiogramma richiedendo la posizione dei campi minati ancora esistenti: il pericolo era, che con le grosse ondate, il loro ancoraggio potesse rompersi, quindi avrebbero potuto mettersi pericolosamente a vagare per il mare circostante. Fortunatamente non venimmo a conoscenza fino al giorno dopo di un errore che era stato fatto: al Comandante era stata assegnata una rotta che passava proprio attraverso i campi minati, anziché quella sicura. Avevano scambiato la rotta consigliata per ridurre gli effetti della tempesta, con quella dei campi minati. Passammo indenni attraverso questo pezzo di mare con una fortuna sfacciata da sfiorare il miracolo.
Pochi giorni prima di entrare nel porto di Edimburgo, Scozia, una densa nebbia ci circondò, causando poca visibilità. Potemmo sentire a distanza il rumore del motore di una nave che si avvicinava, e sentimmo anche i periodici suoni di sirena della nostra e dell’altra nave, ma non riuscimmo a vederla. Furono dati ordini di dare fondo alle ancore ed aspettare fino al successivo mattino, perché con quella nebbia era pericoloso manovrare.
La mattina seguente andai sul ponte, e con grande sorpresa, vidi un enorme montagna accanto a noi. Era una grande nave portaerei inglese ancorata li vicino. Ancora qualche miglio e non avremo potuto evitare una disastrosa collisione. Grazie a Dio siamo scampati al disastro. Abbiamo apprezzato la grande attenzione del Comandante e la sua decisione di fermarsi.
Ci stavamo avvicinando a Natale, ed i miei pensieri erano con la famiglia, sperando di riunirci quanto prima. Poco prima di Natale, dopo il pranzo, fui sorpresa di trovare un vero albero di Natale, era un regalo del Comandante, che lo aveva fatto imbarcare di nascosto, affinché non lo vedessi. Mi dissero di addobbarlo. Misi in moto la mia immaginazione facendo con le forbici ogni tipo di ornamento, tagliando nastri, carta colorata e quant’altro avessi potuto trovare. Quando ebbi finito, dissi che mancava solo la stella da posare in cima all’albero, chiesi che mi procurassero in qualche modo qualcosa che somigliasse ad una stella, ed essi mi portarono una piccola bandiera svedese, che mettemmo al posto della stella. Ho portato con me per ricordo quella bandierina.
Cantammo le canzoni di Natale, in inglese ed in svedese, e nel mio album fotografico, gli ufficiali scrissero simpatiche dediche in ricordo di quel viaggio e di quel Natale.
Ci siamo ancora imbattuti in tempeste e forti piogge, ma il vento si attenuò per un certo tempo. Trovammo tempo brutto da quando partimmo dalla Svezia, ed in qualche momento pensai che non ce l’avremmo fatta a finire il viaggio. La nave ballava tanto che mi ero veramente sentita male.
Venne il giorno che il Comandante annunciò che saremmo arrivati il giorno dopo. Mi sono sentita molto eccitata nel sentire quelle parole.
Quella mattina arrivammo a Baltimora. Alcuni giorni prima avevo telegrafato ai miei fratelli il giorno del mio arrivo, che ara il giorno dell’ultimo dell’anno. Non potemmo subito attraccare al molo, perché dovevamo stare per un po’ in quarantena. Questo fu un leggero disappunto per noi. I dottori e le autorità sanitarie e doganali vennero a bordo per esaminarci e per controllare i bagagli.
Il giorno di capodanno rimanemmo a bordo desiderosi di sbarcare, ma comunque grati di aver raggiunto, dopo 21 giorni di tempeste e fortunali, la nostra destinazione.
Il giorno di capodanno ci augurammo l’un l’altro la benedizione di un anno prospero e pacifico, e che altri molti anni tranquilli possano seguire.
XIII
LA VITA ALLA FINE DELL’ARCOBALENO
Come la nave si accostò al molo, vedemmo gente che affollava la banchina. Io intravidi mio fratello Albert tra la folla. Egli salì a bordo e ci abbracciammo! Non riuscivo a parlare perché ero soffocata dalle lacrime che scendevano copiose sulle mie guance. Fui felice di rivederlo e lui cercò, in qualche modo di consolarmi.
Seduti sul treno nel viaggio verso New York, verso casa, parlammo intensamente. C’era così tanto da dirci per ricucire quel buco nero della guerra che ci aveva diviso.
Lui mi raccontò delle sue esperienze di guerra.
Entrò in sevizio attivo dell’esercito Americano a New York il 24 febbraio 1941, e fu congedato nell’ottobre del 1945. Prestò servizio all’estero, nel settore continentale E. T. O. (European Theatre of Operation) dell’esercito dal 18 gennaio 1944 al 4 ottobre 1945, nella 4ª Divisione Fanteria, al comando del Maggior Generale O. Barton. Prese parte alle battaglie svoltesi nella parte settentrionale della Francia, in Normandia.
Fu ferito il 2 agosto 1944 e fu decorato con la “Purple Hart Medal”. Altre medaglie che si è guadagnato sono: “American Defens Medal”, European-African Middle Estern Service Medal”, “American Compaign Medal”, “Good Conduct Medal” e “World War II, Victory Medal”. Ricevette le notizie sulla mia situazione quando si trovava in Inghilterra, in ospedale in via di guarigione dalle ferite riportate, e fu molto sollevato nell’apprendere che io stavo bene. Mio fratello Eddie, che era impiegato come civile nella Marina Militare Americana a Maspeth, Long Island, scrisse ad Albert per riferirgli delle informazioni che aveva ricevuto dalla Croce Rossa Internazionale sul mio conto. Ho scoperto così che avevo una cognata, un nipotino e una nipotina che non avevo mai visto.
Arrivammo a New York. Camminando per la strada, mi ritornarono nella memoria gli anni passati in questa città. Mi ricordai del tempo, quando coi miei genitori venivamo in centro per gli acquisti, per assistere agli spettacoli di Broodway, per lunghe passeggiate.
Fui sottoposta a infinite domande in merito al mio viaggio, ai nonni, ai parenti e amici, ma non riuscivo a parlare dell’isola da cui eravamo stati così barbaramente strappati. Lentamente essi si resero conto quanto doloroso fosse per me rievocare quel tragico periodo, e quanto importante fosse per me cancellare il ricordo di quell’esperienza, in modo che potessi finalmente dormire con più serenità, e non svegliarmi improvvisamente la notte con incubi di terrore, urlando e svegliando tutti, come mi succedeva negli ultimi mesi in Svezia.
Volevo fortemente ripartire verso una nuova vita, un nuovo inizio, benché fossi consapevole che niente potrà cambiare il mio vero intimo, che niente sarà più come prima.
Volevo solo sedere quietamente avere il piacere di guardarli ed ascoltare il racconto di tutti gli eventi che mi sono perduta. Ovviamente per loro dovrà essere apparso strano che io non avessi avuto la minima idea degli avvenimenti che mi raccontavano. Ma come avrebbero potuto capire quello che era realmente accaduto? Loro sapevano soltanto che eravamo separati.
Quando ero nel campo, mi ripromisi di non raccontare a nessuno quello che li dentro avveniva, perché nessuno avrebbe potuto credermi. Decisi quindi, di spingere nell’angolo più lontano della mia mente i ricordi di quel terribile passato, ma andare avanti verso il futuro e verso un più brillante inizio della mia nuova vita. La sola soluzione era trovarmi un lavoro per tenere occupata la mia mente. Non potevo stare seduta inerme per lungo tempo.
Al secondo mese dal mio rientro a casa incominciai a lavorare, come cassiera, alla “First Federal Saving and Loan Association”. Lexington Ave, 45 Street. Presidente era il sig. Bliss, vicepresidente il sig. Perry e direttore il sig. Blum. Sarò sempre grata a loro per avermi aiutata a ricostruirmi una nuova vita. Loro e gli altri impiegati erano molto gentili e cordiali. Ero piena di gratitudine nei loro confronti per avermi così bene accolto nel loro gruppo.
Ben presto entrai nella loro squadra di bowling, frequentai corsi serali di contabilità e di gestione dei libri mastri, e poi entrai nel laboratorio operistico intitolato a Mascagni della città di New York. Mantenendomi così occupata, gradualmente cominciai a sentirmi maggiormente a mio agio e a trovarmi contenta in mezzo alla gente.
Il gruppo operistico a cui mi associai fu la migliore terapia per me, o comunque ebbi la sensazione che lo sarebbe stata. Ebbi sempre, fin da bambina, l’inclinazione verso le rappresentazioni teatrali. A scuola partecipavo alle recite e in chiesa cantavo nel coro. La gente che incontrai in questo ambiente era meravigliosa. Facevamo le prove tre o quattro sere alla settimana, e poi le rappresentazioni nel fine settimana. Eseguimmo rappresentazioni operistiche molte volte nel Connecticut, Brooklyn e New Jersey, sotto la direzione della sig.ra Josephine La Puma, che all’età di 16 anni si esibì al teatro della Scala di Milano. Sua figlia, Alberta Masiello, era una direttrice d’orchestra al Metropolitan Opera House di New York.
L’opera mi coinvolse enormemente in molti modi, imparai a cantare, l’arte dei costumi, del portamento, della truccatura; anche le prove di recitazione sul palcoscenico, con tutti i miei cari amici, furono molto istruttive.
Ebbi l’opportunità di conoscere tanti personaggi interessanti del mondo del teatro, del balletto e dell’opera, e molti di loro hanno partecipato ai nostri spettacoli.
Feci il mio debutto cantando la romanza “o mio babbino caro” dell’opera Gianni Schicchi, con l’incoraggiamento della sig.ra. La Puma, la più gentile e comprensiva persona che ho conosciuto. Le sono debitrice di tutto.
Nel mese di dicembre il giornale “Glamour Magazine” organizzò un concorso e nel numero del dicembre 1949, io fui scelta per apparire nel servizio “Christmas is their business”. Io ero semplicemente estasiata, anche perché il giornale della banca dove lavoravo fece un articolo su di me ed espose alcune mie foto negli atri e nelle vetrine della banca stessa. Poiché io lavoravo nell’area della “Grand Central Station”, il sevizio fotografico mi fu fatto in uno studio della zona, e le mie fotografie furono esposte nelle bacheche e negli atri del teatro dove mi esibivo; con mia grande e piacevole sorpresa, vidi che lo studio fotografico espose una mia enorme foto nel suo principale ingresso esterno. A seguito di questo, un’agenzia che aveva scoperto le mie foto, mi fece l’offerta di diventare una sua modella fotografica.
Tutto questo mi fece scoprire che vivevo in un grande paese. E ciò era vero, questa era la terra delle opportunità per tutti. E sempre lo sarà!
Il mio cuore si riempì d’amore, di speranza e mi diede il tremendo coraggio di conseguire tutti gli obiettivi che mi ero prefissa per la vita futura, grata che mi sia stata concessa una seconda opportunità.
XIV
MOMENTI PREZIOSI
Nel giro di un paio d’anni incontrai qualcuno che divenne molto caro al mio cuore. Feci la scoperta di conoscere e sentire nuovamente l’amore.
Ero arrivata al punto di credere che in questo mondo non ci fosse più spazio per l’amore, e mi ero fatta la convinzione che non avrei più potuto più credere in esso.
Facemmo i piani per il matrimonio, la banca dove lavoravo mi fece una bella festa, ricevetti tanti regali. La loro gentilezza toccò il mio cuore, io fui profondamente grata a tutti loro.
Ben presto ebbi un bel bambino. Egli fu la mia gioia ed il mio orgoglio ed egli riempì la mia vita di momenti preziosi. Spesso lo portavo con me alle prove per la rappresentazione dell’opera. Alla fine, mio figlio Ronnie fu introdotto nello spettacolo dell’opera. Egli interpretò nell’opera “Madame Butterfly” il ruolo di “Trouble” all’età di tre anni, e lo fece splendidamente, con ovazioni a scena aperta, assieme a Cho Cho San e Pinkerton. A poco a poco incominciò ad amare anche lui questo mondo.
In quella rappresentazione io fui Kate Pinkerton. Questo fu l’inizio di molte altre opere che interpretammo assieme, e gli anni passarono molto rapidamente.
Una delle mie più care amiche era Adele Daddario Lozitto, che divenne la mia “sorellina”, la sorella che nessuna delle due ebbe, e fummo inseparabili da allora per tutta la vita.
Nel 1980 lavorai a Epcot, come istruttrice Disney al “World Showcase”. Lo stare lì mi faceva sentire come se fossi ritornata indietro, in Europa, tra gli amici che avevo lasciato molti anni fa. Ho conosciuto molti studenti europei che venivano a lavorare a Disney.
Ho anche preso parte in un breve episodio del “General Hospital” per la Disney, questa cosa fu molto eccitante.
XV
SOPRAVVIVENZA
Il Matrimonio mi permise di esplorare e conoscere molte parti del nostro paese, cosa questa che mi piacque immensamente. Ho avuto l’opportunità di possedere ed amare molti animali, soprattutto cavalli, cani e gatti persiani, campioni da esposizione. Ho partecipato a molte esibizioni, ed ero molto felice quando i miei animali vincevano un premio. Io ho trascorso la mia vita con amore e mio marito, e le avventure erano sempre gratificanti.
Negli ultimi anni, alcune nuvole buie sovrastarono la mia vita, ancora una volta il mondo crollò attorno a me. Io lottai e cercai di contrastare le mie emozioni, ancora una volta sentii il vuoto dentro di me.
In qualunque modo si possa chiamare, io sentivo un enorme peso, inquietudine, solitudine: in mezzo al pianto, devo sopravivere! Devo essere forte e sorridere! Perfino quando il mio cuore si sta rompendo, so di essere benedetta, godendo dell’amore di Dio e quello di mio figlio Ron, sua moglie Donna, ed i miei nipoti Ronnie jr., Michael e Gina, i miei fratelli e loro famiglie ed i miei altri parenti e amici.
La fede ed il coraggio che mi hanno sostenuto attraverso l’esperienza del campo di concentramento, mi manterranno ancora forte.
EPILOGO
Mia madre ritornò negli Stati Uniti dopo la guerra, ma era malata di cuore e morì purtroppo nel 1948.
La nostra Villa, tutte le proprietà ed ogni altro avere furono confiscate dai Tedeschi durante la guerra, poi furono nazionalizzate dal Governo Jugoslavo, ed infine anche da quello Croato.
Siamo stati incarcerati e deportati dai Tedeschi e quindi non abbiamo potuto proteggere i nostri averi. Queste nostre proprietà sono ancora iscritte al nome di mio padre. Mi è stato detto che le nostre proprietà sono state trasformate in un yacht club per turisti e abitanti locali.
Io so di essere ancora la vera e legittima proprietaria di diritto di questi beni.
FINE
(Trascrizione, completamento e raccolta di dati storici di Nino Bracco)
Tra vecchie carte della storia di Neresine, merita di essere segnalato il diario del Comandante Giovanni Zvelich, scritto quotidianamente dal giorno del suo sequestro e deportazione in Germania, assieme ad altri 40 Neresinotti. Il diario, fornito dagli eredi e da loro gelosamente conservato, credo abbia un certo interesse storico, perché ci aiuta a ricostruire gli ultimi mesi della tragica seconda guerra mondiale, chiarendo anche alcuni importanti avvenimenti accaduti nel nostro paese.
Il diario testimonia anche la grande umana solidarietà instauratasi tra i nostri compaesani deportati, che pur nella drammatica vicenda del forzato imbarco sulle navi tedesche, a corto di equipaggi, si sono costantemente aiutati tra loro, con intensi contatti epistolari, con il supporto morale, e dove possibile, anche materiale. Questo diario testimonia anche la forte tempra della nostra gente, che pur tra umiliazioni, degradanti privazioni e costante pericolo di vita, hanno tenuto sempre alta la loro dignità umana e la solidale fratellanza tra compaesani.
Ritengo sia utile fornire qualche informazione preliminare in merito a questa drammatica deportazione a cui si riferisce il Comandante Zvelich.
Nella seconda metà dell'anno di guerra 1944, il paese di Neresine, come tutta la regione dell'allora Venezia Giulia, era occupata dalle truppe Tedesche e dai loro alleati appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana di Salò (RSI). Nelle nostre isole il controllo del territorio relativo a Cherso, Lussino ed Ossero era tenuto dai Tedeschi, mentre a Neresine questo controllo fu assegnato ai militari italiani del Corpo della X-MAS. I miliziani italiani erano divisi in due diversi distaccamenti, uno, sistemato a Marina, nell'ex caserma della Guardia di Finanza (casa Biasiol), costituito da giovani compaesani, arruolatisi volontari, non tanto per convinzione politica, ma piuttosto per stare a casa e avere più probabilità di salvare la pelle, tanto più che il comandante della guarnigione era un Neresinotto; mentre l'altro distaccamento era sistemato nell'ex caserma dei carabinieri in Santa Maria Maddalena. Quest'ultimo distaccamento era costituito da 8 o 10 militari, tutti provenienti dall'Italia, quindi non nostri conterranei.
Il 15 agosto 1944 è capitata in paese una squadra di miliziani croati Ustascia, per "reclutare", per conto dei tedeschi, gli uomini delle classi dal 1899 al 1926, e deportarli in Germania come marinai “croati”, per imbarcarli forzatamente sulle navi tedesche del Baltico, i cui equipaggi erano stati decimati dalla guerra. Per raccogliere gli uomini escogitarono uno stratagemma, ed assecondati colpevolmente dalle autorità locali, politiche e militari, fecero affiggere sui muri del paese un bando che ordinava a tutti gli uomini delle classi 1899-1926 di presentarsi urgentemente in Comun, per un controllo burocratico di verifica dello stato di lavoro di ciascuno: addirittura mandarono il messo comunale (fante) ad avvisare, casa per casa, tutti gli uomini di presentarsi in Comun, nonostante fosse giornata festiva, la Madonna Assunta e ferragosto. Non a caso per la verifica avevano scelto il giorno festivo, perché in quel giorno tutti erano a casa. Una volta raccolti gli uomini nel salone del piano inferiore della Comun, circa 40 persone, con le armi in pugno li sequestrarono, li imbarcarono sulla corriera, e li spedirono a Susak, vicino a Fiume, ma in territorio croato sotto il controllo degli Ustascia, come marinai “croati” e poi in Germania. Affinché non scappassero minacciarono gravi rappresaglie contro i famigliari rimasti in paese, in caso di fuga. Ho ancora davanti agli occhi il giorno di quella tragica partenza, tra i pianti e le urla delle mogli e figli dei deportati.
Degli oltre 40 compaesani sequestrati, poi avventurosamente ritornati a casa a guerra finita, il diciottenne Mario Zoroni (Zorovich), prossimo al diploma di Capitano di Lungo Corso, morì nell’affondamento della nave su cui è stato forzatamente imbarcato. Va anche detto che alcuni compaesani, opportunamente informati dalle autorità politiche locali (parenti ed amici), trovarono il modo di nascondersi nelle campagne ed evitare così la deportazione.
Gli Ustascia erano miliziani croati, e quindi stranieri che agivano in un territorio italiano sotto il controllo dei miliziani italiani della X-MAS, senza che quest’ultimi avessero qualche obiezione sul loro operato. La cosa sembra ancor più grave, se raffrontata col comportamento di altri miliziani della stessa X-MAS di stanza nella nostra isola, che per impedire le deportazione di cittadini italiani ad opera di milizie straniere, affrontarono gli Ustascia con un camion armato di mitragliera, costringendoli a liberare i prigionieri e “cambiar aria”.
Viene qui di seguito fornito l’elenco parziale dei compaesani deportati, di cui si parla in questa drammatica vicenda, faticosamente ricostruito anche con l’aiuto dei discendenti, chiedendo scusa per l’incompletezza della lista, dovuta all’ormai difficile reperimento dei dati storici, e per qualche eventuale errore od omissione.
- Giovanni Zvelich, Capitano di Lungo Corso e rinomato comandante di navi mercantili.
- Francesco Soccolich (Frane Bobaric), Padrone Marittimo e comandante di navi mercantili.
- Antonio Zorovich (Toni Belcic), Padrone Marittimo e comandante di navi mercantili.
- Vittorio Zucchi (Ciarni Zuclich), Padrone Marittimo e comandante di navi mercantili.
- Marino Succich (Pancrazio), Padrone Marittimo e comandante di navi mercantili.
- Biagio Rucconich, motorista.
- Teo Zuclich, marinaio.
- Antonio Marinzulich (Toni Ambrosic), marinaio.
- Domenico Mascarin (Menigheto), marinaio.
- Bruno Soccolich, marinaio.
- Oscar Piccini, elettricista.
- Antonio Muscardin, agricoltore.
- Gino Soccolich (Franculin-Cotigar), marinaio.
- Donato Boni, marinaio, dicianovenne.
- Enrico Bracco (Rico), marinaio, ventenne.
- Gaudenzio Rocchi (Denzio), ventunenne.
- Mario Rocchi, ventenne.
- Giuseppe Rocchi (Bepi), dicianovenne.
- Giorgio Sigovini (de caffè), studente, diciottenne.
- Giovanni Soccolich (Nino Bubgnic), diciottenne.
- Lino Bracco, diciottenne.
- Giusto Bracco, diciottenne.
- Bruno Bracco, marinaio, diciottenne.
- Giovanni Bracco (Nino della Virginia), diciottenne.
- Gaudenzio Soccoli (Dici Filicic), marinaio, diciottenne.
- Gaudenzio Soccolich (Jacominin), diciottenne.
- Flavio Zorovich, diciottenne.
- Giuseppe Marinzulich (Bepi Stolver), diciottenne.
- Mario Glavan, diciottenne.
- Mario Zoroni (Zorovich-Rossic), diciottenne, studente della 4ª classe dell’Istituto Nautico di Lussino. Disperso in mare nel naufragio della nave tedesca in cui era imbarcato.
- ……….. Pastore (genero di Jvuancic’), ex militare italiano.
- Matteo Zanelli, marinaio di S. Giacomo.
- ……… Massalin, marinaio di S. Giacomo.
(Il titolo del diario è come scritto, di suo pugno, dal Cap. Zvelich).
Tante cose mi hanno portato via da casa, dai miei affetti e specialmente dal “volto” del mio tenerissimo figlio di otto giorni.
È bastato un semplice foglietto scritto a macchina e firmato da me, per conto del podestà, che mi ha fatto allontanare, assieme ad altri 40 compagni. È stato un invito di controllo delle classi 1899 – 1926, che poi è risultato un tranello per farmi venire in municipio, assieme ad altri. I più fortunati, o per dir meglio “raccomandati” sono rimasti a casa e si sono nascosti. Era un controllo per modo di dire, fatto da dei miliziani croati Ustascia capitati improvvisamente a Neresine, che, armi in pugno, ci hanno rinchiusi nel Municipio del paese e stabilito la partenza immediata. Ci hanno concesso solamente due ore, necessarie per andare a casa e raccogliere quel po’ di roba che si credeva fosse necessaria, minacciando severe rappresaglie ai famigliari per quelli che non sarebbero ritornati. All’imbarco sulla corriera, fatto come per le bestie, ci hanno minacciato con fucili, mitragliatrice ed altre armi, perché non so, come se non fossero sufficienti le promesse di rappresaglie che avrebbero fatto, se qualcuno di noi avesse avuto la bella idea di andarsene per i fatti suoi, come lo avrebbe potuto fare, anche comodamente. Ad ogni modo siamo partiti da Neresine il giorno 15/8/1944, alle ore 17, tra un mesto saluto della popolazione. Transito da Ossero senza sosta. Dal finestrino vedo la Ginetta, con gli occhi arrossati come se avesse intuito, poveretta, che qualcuno dei suoi se ne va. Si prosegue con una fermata in …. (nome illeggibile), per sbarcare una moglie che piange perché il marito era con noi. Bellei si raggiunge tosto e ci si ferma per bere un bicchiere. Dal sedile vedo la Marizza con la piccola, piange pure lei e don Matteo piangente, pure lui mi esorta a fuggire. È facile consigliare quando non si hanno personalmente delle conseguenze e quando non si ha una moglie ed una cara e tenera creatura. Ad ogni modo, dopo circa mezz’ora si riparte per Cherso, che è presto raggiunta. Ci fanno imbarcare sul “Primorska”, in coperta come bestie, soprattutto in troppi, perché li ci hanno aumentato di circa una ventina di ragazzi sequestrati a Lussingrande, che aspettavano da due giorni un mezzo. Da notare che quei poveri ragazzi hanno aspettato da due giorni in un recinto non coperto e con scarso mangiare. Hanno fatto le loro lagnanze ai guardiani e comandante della locale milizia italiana (repubblichini e X-MAS), ma tutto lettera morta. Tanto noi dagli italiani che cosa dovevamo aspettare, se non una simile risposta “noi non possiamo far niente”. Verso le 20 si parte dalla nostra cara isola fra il silenzio assoluto e qualche piccolo mistero e grande rimpianto dei miei compagni, rivolto verso la cara terra che si lascia, chissà per quanto tempo. Sono assieme a Vittorio Zucchi (ciarni Zuclich) e Toni Zorovich (Belcic), tutti tre pensiamo alle nostre case e alle famiglie lasciate così improvvisamente. Non credo che il giorno della festa della Madonna, che ricorre oggi ci porterà sfortuna; vorremmo lavorare e magari patire, ma verrà finalmente l’ora che potrò ritornare e vedere il caro volto del mio Toni, a cui non mi ero ancora tanto abituato, perché da troppo poco tempo l’ho conosciuto. La navigazione prosegue lenta come può consentire il vecchio motore della barca, ed alle 3 del 16 agosto arriviamo a Susak. Li appena in banchina incomincia la vita militare, ci mettono in fila, ci contano, e via al passo per le vie di Susak alla ricerca della nostra caserma. Si arriva finalmente in una casa in via Medaglie d’oro, 6, e li aprono alcune porte due ragazze slave brontolando incivilmente. In tre cameroni sono sistemati dei letti che dovevano ospitarci. Io e Vittorio ci accontentiamo di un giornale e ci sediamo per terra, tanto per incominciare. Al giorno ci danno un po’ di caffè col pane, una tazza di minestra a pranzo ed un’altra alla sera. Il 17 un tizio in veste di capitano Ustascia con una segretaria (bella che potrebbe essere anche la sua amante, visto che vengono assieme in moto), ci chiamano uno alla volta per le generalità e notizie riguardanti la famiglia, insomma tutto quello che può servire per un bel e buono servizio di leva e ci fanno firmare una specie di contratto. Il trucco si vede adesso, ma è ormai tardi. Ci fanno passare per croati, così di punto in bianco si cambia nazionalità. Tutti ci siamo guardati in faccia e siamo rimasti senza parole. Cambiare nazionalità dopo un’educazione che si ha avuto, dopo che ho fatto tutti i miei studi, ed anche carriera come italiano. Devo servire la marina mercantile tedesca come nostromo croato, c’è da ridere quasi a pensarci bene. Tanto, per conto mio, hanno ragione di trattare così gli italiani, dopo quello che hanno fatto. Al pomeriggio del giorno dopo vado in Capitaneria a Fiume per cercare di fare qualcosa. La solita risposta italiana “non possiamo fare nulla”. L’unica cosa che mi accontentano è che mi rilasciano una dichiarazione della mia patente con la navigazione effettiva ed i gradi avuti nella marina mercantile italiana. Una stretta di mano con “in bocca al lupo” è l’ultimo contatto che ho avuto con le autorità italiane, spero di non averne altri.
Molti amici di Fiume si sono stupiti e meravigliati della mia fregatura, ma niente di più, tanto anche i miei parenti di Fiume non hanno fatto più di tanto.
Il 18 agosto, alle 4 sveglia, ci consegnano tre scatolette di carne, due pagnotte e dopo un controllo fatto con pacchetti di sigarette (modo molto efficace per i fumatori), ci mettono in fila e via per le strade buie e solitarie di Susak, e poi Fiume.
La via crucis dei deportati delle isole del Quarnero incomincia. Appena in stazione, ci fanno imbarcare in due vagoni merci, ancora abbastanza bene, 22 per vagone, giusto la metà di quanto prescritto dalla legge provvisoria internazionale. Si capisce che appena imbarcati, ognuno si cerca il suo posto e procurerà di guardarselo bene. Io assieme a Vittorio, Toni (Belcic) e Frane (Bobaric) ci mettiamo assieme come uomini sposati e incominciamo, tanto per non perdere l’abitudine, una partita a morra. Questo gioco nostrano ci sarà di compagnia fino a che saremo assieme e cioè fino alla partenza da Amburgo di tutti, fuorché di me e Vittorio. Alle 6,30 si parte da Fiume agganciati al treno regolare di passeggeri fino a S. Pietro, dove ci smistano e alle 11 si parte per Lubiana. La vista di terre nuove per il nostro occhio ci eccita la curiosità e tutti stiamo guardando le belle campagne che percorriamo. Effettivamente la campagna attorno a Lubiana è magnifica e per la stagione estiva si presenta ancora più bella al nostro occhio. I campi interminabili coltivati a grano, granoturco, segala ed altro, sono, ripeto, magnifici, e poi è la prima volta che vediamo un magnifico paesaggio, ci eccita di più e ci fa anche ricordare che abbiamo bisogno di un po’ di cibo per frenare lo stomaco. Stavamo mangiando mezza scatoletta di carne con pane ed acqua, quando alle 13,35 si arriva a Lubiana. Sempre sui medesimi vagoni ci fanno percorrere tutta la stazione, in tutti i binari, credo, fra grandi scossoni ed anche qualche rottura di bottiglie. Uno di noi, non so come, è riuscito a trovare un po’ di birra, ha sparso la voce tra noi, e così, uno dopo l’altro siamo scappati al ristorante militare a berci il nostro mezzo litro di birra, ed avidamente, perché era quasi un anno che non la vedevamo, almeno da parte mia. Alle 15 si parte da Lubiana e lo spettacolo di campagne, terre e paesi nuovi si profila al nostro occhio come una visione cinematografica abbastanza bella e divertente. Credo che la novità del viaggio ci ha fatto molta compagnia, così il tempo ci passa presto. Verso sera un altro spuntino e poi alle 21,30 arrivo a Assling-Sawe (Jessenizze), dove si pernotta. Il freddo ha incominciato a farsi sentire e l’unico modo per riscaldarsi era quello di stringersi l’uno con l’altro, per farci un po’ di caldo. Passa la notte, tra qualche nuova barzelletta, comunque interminabile ugualmente.
19 agosto. Ore 9,30 si riparte, e dopo una piccola galleria di 20 minuti circa, si entra in Germania; alle 10,50 si arriva a Villacca. Altre sei ore di sosta. In questo tempo ci hanno smistato da un binario all’altro, sempre noi nei due famosi vagoni a subire le scosse. Fra una manovra e l’altra abbiamo fatto la conoscenza con un giovanotto sedicente studente universitario triestino, rastrellato in qualche città. Ora deve ingrassare le ruote dei vagoni ferroviari, dorme fra i prigionieri russi e mangia assieme a quelli francesi. Dall’accento si è rivelato un puro siciliano. Sempre gli stessi sono gli italiani! Alle 16,50 si parte da Villacca e si prosegue il viaggio ammirando il bel paesaggio che si presenta lungo la strada. Stiamo attraversando le Alpi Giulie? (Credo almeno che siano quelle). Le cime delle montagne sono molto aspre, ed ogni tanto si intravedeva lontano un po’ di neve. La vista di questa ci fa pensare al prossimo inverno, alle terre ove siamo destinati ed al nostro misero corredo estivo di cui siamo in possesso. Tirando le somme, credo che non passeremo tanto bene. Durante la notte il freddo si fa più pungente e ci stringiamo ancora di più l’uno sull’altro per riscaldarci un poco.
20 agosto. Un forte scossone mi sveglia all’improvviso, è il solito movimento dei vagoni nella stazione, fatto senza grazia e compassione per quelle povere 44 anime che sono stipate nei due vagoni. Siamo a Salisburgo. Tutto quello che so di questa città austriaca è quello scossone, poi mi addormento nuovamente e la corsa prosegue. Alle 6,40 si attraversa un fiume, l’Inn. Alle 7,00 piccola fermata a Rosenheim. La corsa prosegue ora più veloce per la campagna della Germania. Verso le 9,00 osservo una maggiore curiosità dei miei compagni, ogni tanto dalle loro bocche sfugge la parola: “vara che bomba”. Mi affaccio e vedo anch’io delle grosse buche, delle case e delle fabbriche distrutte. Siamo nelle vicinanze di Monaco di Baviera. Il perché di questa distruzione non serve domandarlo. La città con il circondario è stata finora molto colpita in questa guerra distruttrice. Dopo un’andatura molto lenta del treno ci si ferma a Mü-Truder per essere smistati verso un’altra via, non quella di Monaco. La ragione è facile da comprendersi, perché la zona che attraversiamo, dalle 9,00 alle 10,30, si fa ad andatura lentissima, e lo spettacolo che ci si presenta davanti agli occhi è desolante. Case e case distrutte, fabbriche distrutte, e dove non c’è nulla grandi buche di bombe. Il treno, attraversando questa zona va a passo di lumaca, come se dovesse, da un momento all’altro, precipitare in un fosso. Verso le 10,30 la nostra corsa comincia ad accelerare e per le 11,30 siamo a Ingolstadt HBF ove ci aspetta un pranzo. Alle 12 si riparte. Piccolo incidente: due nostri compagni, che per bere un bicchiere di birra restano a terra, e fortunatamente raggiungono gli ultimi vagoni del merci. Alle 15 si passa per Gunzenhausen, ed alle 17 arriviamo a Ausbach, dove si mangia una scodella di minestra e finalmente ci si può anche rasare. Questa toeletta ci ha un po’ ristorato e il pranzo ci ha fatto bene, ne avevamo proprio assoluto bisogno. Alle 20 si prosegue il viaggio e ci aspetta un’altra notte di vagone. Si dorme poco perché le scosse degli scambi ci fanno spesso svegliare bruscamente.
21 Agosto. Alle 7,00 arriviamo a Bebra, altra città vista dalla stazione, tutta affumicata dal fumo delle macchine. Piccola merenda da scatoletta di carne, ma accompagnata da due mezzi di birra che sono riuscito ad avere in un ristorante fuori dalla stazione, assieme ai miei compagni. Alle 9,00 si riparte ed alle 10,55 si passa per Eichenberg. Alle 11,35 arriviamo a Gottingen, dove ci danno un bicchiere di minestra ???. Altro incidente a Frane, che per andare in cerca di un bicchiere di birra, si allontana dal gruppo. Il capo gruppo, un crucco di prima qualità, diventa furioso, e va addirittura al comando stazione. Lo pescano che tranquillo cerca per la stazione la birra. Gli danno una grande lavata di testa con minaccia di metterlo dentro appena arrivati ad Amburgo. Un piccolo gruppo dei nostri deve un poco sfacchinare con un tedesco per imbarcare delle casse su un vagone. Alle 16,00 finalmente si riparte. Verso sera si passa per una zona abbastanza industriale, ed anche qui si vedono gli effetti di questa guerra, segni di bombe un po’ dappertutto, ma di più su case e campagne. La campagna della Germania settentrionale è molto bella, tutta pianeggiante e coltivata. Ogni tanto si attraversa qualche boschetto di pini giovani. Mandrie di vacche di 30-40 capi si vedono ogni tanto, raggruppate in campi recintati. La sera incomincia a calare ed il nostro treno merci continua la sua corsa. Alle 21 si passa per Celle. Altra notte in treno.
22 agosto. Sin dalle prime ore del mattino capisco che dovremmo essere vicini alla meta. Durante le manovre di smistamento dei vagoni sento il dialetto amburghese dei ferrovieri. Questo accento amburghese me lo ricordo ancora da 10 anni fa, quando navigavo per il Nord Europa con i piroscafi dell’Adria. Ancora due o tre fermate per i sobborghi della città, e finalmente, alle prime luci del nuovo giorno, si entra in Amburgo. Il grande ponte di ferro sull’Elba è intatto, ma un po’ più avanti si vedono le distruzioni che inglesi ed americani hanno fatto della bella città Anseatica. Case e case distrutte, sempre case. Il merci si ferma fuori dalla stazione alle 6,00 del 22 agosto. Giù tutti con i nostri fardelli, in fila come a Fiume fra i binari, ci dirigiamo verso la nostra ignota meta. Più di un’ora camminiamo fra i binari, ogni tanto inciampando sulle traversine e ciottoli, nel freddo mattutino, alimentato da una fine nebbia. Finalmente, con il nostro stupore, ci si dirige verso il porto, ed alle 7,15 ci fanno montare su un piroscafo di circa 3.500 tonnellate, il “D. Oxoft”, che funge da nave deposito. La nave è trasformata in alloggio, piena di cabine e sale. Insomma è un albergo natante. Giù per i corridoi ci distribuiscono su dei camerini, ed ognuno si sceglie il proprio posto. Si commenta, tra risa e scherzi, il nuovo posto, ma a pensarla bene, c’è da piangere. Descriverò un poco la nostra cabina n° 21. Siamo in 11 che la occupiamo, ognuno ha la sua cuccetta, con un materasso di paglia ed un guanciale della stessa sostanza. Uno stipetto per ognuno ad uso tavolo, su cui, per tenerci allegri, abbiamo subito fatto una partita a morra. Un fischio dopo mezz’ora dal nostro arrivo, ci fa rendere consapevoli che siamo pressappoco militari. In riga. Un tizio in maniche di camicia ci passa in rivista, e osservatici tutti, incomincia a parlarci. La prima parola che sputa fuori è “slusaj” con cui si battezza e si stigmatizza. Vero e duro serbocroato, senza educazione né cultura, e come si è più tardi dimostrato, anche, non vorrei dire cattivo, un vendicativo. Slusaj, cosi poi da noi battezzato, ci avverte come dovremmo comportarci a bordo, e che più tardi ci avrebbero dato delle coperte, un asciugamano, forchetta, cucchiaio e coltello. Il bagno lo avremmo fatto dopo il caffè. Verso le 9 ci fanno passare su un’ampia sala, zeppa di tavoli, e credo capace di ospitare più di cento persone. Una zuppa calda con pane, caffè e un pezzo di burro è il primo boccone che facciamo a bordo. Dopo una mezz’ora il bagno tanto sospirato arriva e ci mette a posto completamente. Alle 12 pranzo e nel pomeriggio un sonnellino di un paio d’ore ci fa arrivare alle 17. Con nostra sorpresa la cena non viene servita, ma al posto di quella, a mezzogiorno ci avevano dato mezza pagnotta, un pezzo di burro e due fette di salame, questo, con un paio di bicchieri di birra sarà per 15 giorni la nostra cena. Per ben due giorni ci lasciano in pace. Il terzo giorno un capitano della marina mercantile tedesca ci chiama uno alla volta, per interrogarci sul nostro mestiere. Io mostro il mio documento di Fiume, ma non vale. Con lui tutti sono buoni per navigare. Capitani diventiamo nostromi, anche i padroni marittimi diventano nostromi e penesi. Contadini e maestri faranno i garzoni. I giovani marittimi saranno marinai e camerieri. Il quarto giorno la lunga fila dei deportati se ne parte dall’Oxoft per andare a fare la visita medica, incassare 100 marchi, quindi all’HAPAG per il vestiario e ritirare i buoni di prelevamento per il medesimo. Per le vie della città tutti ci guardano con curiosità, siamo più osservati dai soldati italiani che sono qui prigionieri. Questi poveri soldati sono contrassegnati in tutte le parti del vestito con le lettere MI oppure IMI. Sembrano, a dire la verità, dei galeotti, che accompagnati dai loro carcerieri, con la differenza che i galeotti avevano il privilegio di non essere notati da nessuno, mentre questi poveri prigionieri sono commentati e forse anche … derisi. Mi hanno fatto proprio pena a vederli conciati in quel modo, poveretti, dopo aver combattuto per 4 anni essere ridotti in quelle condizioni. Ho pensato a Toni, e mi sembrava si veder spuntare il suo volto, tra un gruppo e l’altro. Più avanti ho visto dei francesi e dei russi. Un gruppo di prigionieri ha inteso che noi parlavamo la loro lingua, ci hanno chiesto se noi avevamo firmato. Non ho capito subito il significato di quella domanda, poi uno mi ha spiegato che i tedeschi stavano facendo una campagna per fare aderire i prigionieri alla Repubblica italiana di Salò, con la promessa di farli uscire dal campo di concentramento e dare loro tutti i diritti dei lavoratori venuti dall’Italia. I molti però, con la paura di essere di nuovo richiamati ed inviati al fronte, preferirono stare nei campi e fare la vita che hanno fatto da 11 mesi, piuttosto che firmare. Per conto mio non avevano torto. Li assicuriamo della nostra condizione, ed anche loro ci commiseravano e qualcuno ci avverte che dovremo lavorare, ed anche forte. Ho dimenticato che per questa passeggiata Slusaj ci aveva consegnato ad un altro suo compaesano, e non so che dei nostri lo aveva subito battezzato “Pampurio”. Un tipo piccolo come il suo omonimo, bonaccione, ma per finta, forte bestemmiatore. Naturalmente anche lui croato. Arrivammo finalmente al palazzo dell’HAPAG, e li passiamo tutti 44 la visita medica in meno di 10 minuti. Più tardi incassiamo i 100 marchi e via nuovamente per le vie della città, dietro a Pampurio. Un’altra sosta in una casa intatta, l’unica in tutto il rione. È la Capitaneria. Quasi per dispetto sembra che la furia della guerra abbia voluto lasciar intatti tutti gli uffici, in modo che gli uomini possano presto trovare coloro che li invieranno verso i loro destini. Li altre due ore, a trovare registri di piroscafi, mettere a ruolo e firmare. Qui tutti siamo ingaggiati, ma ci vorrà del tempo prima che arriveremo alla nostra destinazione. Io e Vittorio siamo arruolati sulla nave “Begher V”. Sono le 14 e la fame comincia a farsi sentire. Appena usciti dalla Capitaneria cominciammo a protestare, ma Pampurio, con due parole e 20 bestemmie, ci fa capire che dobbiamo ancora passere per un altro ufficio. Altra mezz’ora di cammino. Altro ufficio sgangherato, ma intatto. Qui gli impiegati si spaventano di vedere tante persone, così decidono di raccogliere i nostri documenti, con la promessa a Pampurio che avrebbero mandato i buoni a bordo. Arriviamo a bordo verso le 16,30 con tantissima fame. Pranzo, cena e birra ci fanno dimenticare tutte le sgobbate del giorno, e credo che verso le 21 ci siamo alzati dal tavolo per andare a dormire. Ho dimenticato di dire che diversi allarmi ci hanno fatto alzare dal letto di notte ed anche di giorno per correre al rifugio. Rifugio per modo di dire. Un magazzino ancora intatto, e si capisce, la cui cantina fungeva da rifugio. Per conto mio facevo, assieme a Vittorio, Frane e due o tre altri, 10 minuti di più di strada e ci rifugiavamo sotto un grande casamento di 8 piani. Qualche volta siamo arrivati esausti, ma grazie a Dio sempre bene. Altri due giorni di riposo a bordo in attesa dei buoni vestiario. In tutto questo periodo la scarsità di tabacco era la più grande preoccupazione dei fumatori. Tre sigarette al giorno era la razione che ci passavano, un po’ troppo poche per gli accaniti fumatori. Finalmente arrivano i buoni vestiario. Anche questa volta Pampurio ci accompagna per i negozi della città a fare acquisti. Il corredo che abbiamo ottenuto ciascuno era il seguente: un paio di scarpe, due tenute da lavoro, due maglie di sotto, due mutande, due fazzoletti, un berretto, due coperte, due asciugamani e due paia di calze. Naturalmente la roba che dovevamo prendere non aveva molta possibilità di scelta. Quelli che quel giorno non hanno ottenuto il vestiario, poi in seguito hanno ottenuto roba migliore. Le sere le passavamo quasi generalmente a bordo, benché avevamo tutti il permesso di uscire fino all’una. I soliti discorsi di casa e di come ci hanno presi sono sempre sulla bocca; prima di andare a dormire la solita partita a morra tre me, Vittorio, Frane e Belcic. Sentivamo che presto avremmo dovuto lasciarci, ed attendevamo le ore del distacco. Questo avviene.
Il giorno 29 agosto un gruppo di 24 dei nostri compagni deve partire per raggiungere i piroscafi nei vari porti della Germania orientale: Danzica, Gotinghen, Helz, Koensberg, Pillon e Meure. Saluti silenziosi con una stretta di mano e raccomandazioni ed auguri. Siamo mesti nel veder partire i 24 amici, tra cui Frane, mio cugino che è destinato a Pillon. Un breve appello sulla banchina e poi la fila dei 24 Neresinotti si snoda con sacco in spalla. Sembrano tante reclute. La mattina dopo devono partire altri 8 per Stettino e Swineremunde, fra cui Belcic. La sera la passiamo mesti commentando il distacco. Ci salutiamo perché la prossima partenza è per le tre del mattino. Quando mi sveglio al mattino mi trovo solo in cabina con Vittorio. In un altro armamento sono 6 che devono andare a Venezia a bordo dello “Stamira”, ora nave ospedale chiamata Friburg. Al pomeriggio è la volta mia e di Vittorio, la nave su cui siamo destinati, il Bergher V è in Amburgo. Sono le 14 che ci allontaniamo da bordo, ed alle 23 ce ne ritorniamo nuovamente sull’ Oxoft, dopo aver camminato per tutto il porto di Amburgo senza trovare la nostra nave. Molte cose si dovrebbero dire di questa passeggiata, ma è meglio tenersele per se, per il momento. Stanchi morti, siamo ritornati, ed anche per giunta affamati. Il giorno dopo, a colazione fatta, col sacco in spalla, un’altra volta alla ricerca della nave. Questa volta la peschiamo dopo un’ora di strada. La nave è piccola, di circa 400 tonnellate, destinata a lavori di recupero, ma di lavoro ce ne dovrebbe essere molto. Un tizio in tuta da lavoro e guanti a cui siamo consegnati ci interroga, ma risposta niente, perché non sappiamo il tedesco. Ci accompagna a prua, ci mostra due cuccette e sparisce. Dopo un po’ ritorna, lo seguiamo a poppa, ci consegna due materassi. Noi due ritorniamo a prua per sistemarci e nel frattempo facciamo la conoscenza col mozzo, un vispo ragazzetto di circa 17 anni, il quale ci avverte che a bordo c’è molto da lavorare ed anche un brutto ambiente. Quasi fosse contento della nostra compagnia, ci spiega che quello che ci ha accompagnato, un giovane di 24 anni è il capitano. Restiamo stupiti un po’ e ci tratteniamo ancora circa 10 minuti in saletta a chiacchierare col mozzo. Più tardi, in coperta, vediamo che il capitano lavora in stiva e ci guardiamo, credo, col medesimo pensiero: se lui lavora tanto, poi noi cosa dovremmo fare? Sempre il capitano ci domanda cose facevamo nella vita privata, avuta la risposta che anche noi eravamo capitani, ci guarda e va in cabina, quindi scrive una lettera, la chiude e consegnandocela ci dice di ritornare nell’Oxoft, che lui non ci voleva. Altra volta sacco in spalla e altra ora di cammino. Di nuovo a bordo dell’Oxoft, giusto alle 14 per l’ultimo pranzo. A bordo troviamo gli altri che devono partire per Venezia. Via loro siamo rimasti soli. Siamo come due, non so come spiegare, pecore perse su quella nave. Vittorio mi nomina ogni tanto sua moglie ed i bambini, io lo stesso, ma è un argomento brutto perché ci fa male al cuore. Col proposito di non parlarci più, sempre ci ritorniamo su a ricordare i nostri cari. Ogni tanto ci domandiamo cosa penseranno di noi le nostre mogli e come sarà a Neresine. Più soli che siamo e più ci disperiamo. Una sera per distrarci un po’ andiamo in giro per la città, a vedere tutta rovinata. San Pauli, rione molto bello è tutto giù, irriconoscibile da quello che avevo visto 10 anni fa. Ci ficchiamo in un cinematografo e poi una birra, e di nuovo a bordo. Alla mattina ci consegnano un altro biglietto per andare in Capitaneria. Ci destinano sulla motonave “Mimi Horn”. In Capitaneria, o non trovano le carte od altro, dicono che la nave non c’è e così di nuovo a bordo dell’Oxoft. Soli nuovamente. I giorni sono lunghi ed interminabili. Solita vita, sveglia alle 7 poi colazione, fino a mezzogiorno passarsela come meglio si crede, poi pranzo. Durante il pomeriggio, in attesa delle 18, per andare ad affogare la malinconia con diversi mezzi di birra. Vittorio si lagna in un modo ed io in un altro, e così si passa il tempo. Ricordo che in uno di questi pomeriggi io e Vittorio abbiamo fatto una partita di morra di dodici mani a 21 punti! È durata tre ore, con la mia sconfitta. La sera del 5 settembre, noi eravamo già a letto, quando delle voci a noi conosciute ci svegliano. Sono gli amici di Stettino che sono ritornati, Ci raccontano che non hanno trovato le navi, perché tutte affondate, bruciate e danneggiate in un bombardamento avvenuto il giorno prima del loro arrivo. Sono stati fortunati, forse adesso comprendono che la Madonna delle Grazie che è dai Frati del nostro paese, ci guarda, e sono più contento perché ho più speranza che un giorno rivedrò i miei cari. Ci raccontano che li hanno fatto lavorare per tre giorni tra le rovine delle navi, e poi li hanno spediti nuovamente ad Amburgo. Il loro ritorno ci ha fatto piacere per tante cose, ma soprattutto per qualche sigaretta che siamo riusciti a scroccare a loro. Nel vederli Slusaj si è stupito, ed ha incominciato ad arrabbiarsi e a bestemmiare come un turco, perché sono ritornati nuovamente a seccarlo, quasi fosse colpa loro. La giornata seguente l’abbiamo passata bene in attesa della nuova destinazione. Il 6 settembre ci hanno dato una nuova destinazione. Io, Vittorio e suo cognato Bepi Rocchi destinati al deposito di Danzica, e gli altri 5 su dei piroscafi. Il 7 al mattino altra visita medica e nel pomeriggio, dopo mangiato, ci consegnano altri buoni per mangiare e tabacco, accompagnati da un nostromo alle 16 partiamo dalla stazione di Amburgo. Alle 19 a Lubecca, in stazione solamente e via. A mezzanotte si arriva a Stettino. Qui fermata di due ore, poi si prosegue. Notte lunga sul corridoio del vagone perché pieno, neanche il piede si poteva mettere per terra. Come Dio vuole alle 7,30 si arriva Gotenhafen (Gdinia). Aspettiamo oltre due ore perché il nostromo ha accompagnato due dei nostri su piroscafi in questo porto. Alle 10, con altro treno locale si arriva a Danzica, la città causa di questo conflitto e delle nostre tribolazioni. Nel tratto dalla stazione al KMD ho osservato che Danzica deve essere una bella città e molto pulita, ma soprattutto, fin’ora intatta. Per due ore attendiamo ai giardini il nostromo che è andato negli uffici, e finalmente arriva con la destinazione. Io e Bepi Rocchi siamo destinati sulla M/N Warteland, Vittorio, Bruno Bracco e Menighetto Mascarin, alla scuola. I due destinati alla scuola si meravigliano della loro sorte, e Vittorio anzi commenta dicendomi : “che noi ne mandi, prima de imbarcarne, a imparar il tedesco”. Arrivati al punto del distacco, ci salutiamo, e via per il nostro destino. A bordo arriviamo presto e ci danno un po’ da mangiare. È una grande motonave di 9.000 tonnellate, destinata al trasporto di merci e truppa. Ci si presenta al primo ufficiale, il quale, avuti i nostri documenti, ci manda dal nostromo per prendere servizio. Un po’ più tardi la nave fa movimento, ed appena adesso, dopo diversi anni, ritorno a manovrare coi cavi di ferro. Il mio posto di manovra è destinato a poppa, mentre quello del Bepi è a prua. Ci mettiamo dall’altra parte del canale perché la nave deve fare disinfestazione e rimanere li per ben due giorni. Finita la manovra, non esagero, ma forse più di cento cappe per maniche a vento abbiamo dovuto mettere a posto noi due, con altri marinai di bordo. Sono le 21 quando lasciamo la nave, con l’ordine di rientrare a bordo domenica mattina. Ci hanno dato da mangiare per questi due giorni del burro e altri cibi freddi, con una pagnotta di pane. Anche noi per questi due giorni dobbiamo andare alla scuola, dove un materasso di paglia, un lenzuolo ed una coperta è tutto il corredo che ci danno. È tardi quando arriviamo, stanchi morti, è da Amburgo che non dormiamo, ci addormentiamo presto. Pensare che Vittorio credeva che gli avrebbero insegnato il tedesco alla scuola, altro che scuola! Ci mettono in tre per aula a dormire, tutta la notte un mare di gente che viene a dormire e che si alza. Tutti gli ospiti sono soldati, che di passaggio per Danzica, passano la notte alla scuola. La mattina dopo, il 9 settembre, troviamo Vittorio che aveva dormito in un’altra camera. Tutta la mattina la passiamo in giro per gli uffici della KMD, riuscendo a fregare i buoni per mangiare per due giorni e 18,50 marchi a testa come spese di diaria per il viaggio. Il pomeriggio in giro per le vie della città, scriviamo delle lettere a casa con la speranza che arrivino. Alla sera cena fredda in un bar, al cinema della scuola, gratis, e poi dormire.
10 settembre. Al mattino di domenica siamo a bordo per il lavoro. La nave è sempre in quel posto, e si perde la giornata per il rassetto. Come vitto ho osservato che non c’è da lagnarsi, fatto alla tedesca magari, non per il nostro gusto, ma abbastanza abbondante. Non conosco ancora nessuno, ma tutti i nostri compagni sono dei buoni camerati. Tutti giovani, a mensa credo che io sia il più vecchio. In quanto al lavoro, più tardi li conoscerò come lavoratori, ma purtroppo poco pratici di navi. Alla sera alle 18 scendo a terra col Bepi per trovare Vittorio e nuovamente siamo assieme, due birre ed anche di più, cinema alla scuola, ed anche per quella sera dormiamo alla scuola. Si vede che non abbiamo voglia di separarci.
11 settembre. Ci alziamo presto per essere alle 8 a bordo, Quasi mezz’ora di vaporetto per raggiungere la nave, soliti lavori, inutile descriverli. Verso sera cambiamo di posto per andare sotto carico. Si lavora quella sera, credo, fino alle 22. Il giorno seguente ed il 13 sempre sotto carico. Il mattino del 13 vedo Vittorio, tutto disperato, viene ad avvertirmi che lo hanno imbarcato sull’Isar, un piroscafo più grosso del nostro, a 4 alberi. È disperato perché a bordo è solo e nessuno lo capisce. Alla sera dovremmo partire tutti e due in convoglio; questa mattina si è imbarcato pure un ragazzo di Lussingrande come cameriere, così siamo in tre dei 44 deportati dalle isole del Quarnero. Nel pomeriggio la nave è tutta sottosopra per imbarco di truppe. Finalmente verso le 18 si mollano gli ormeggi e si parte. Vittorio è già partito, ci precede di pochi minuti, Il canale non è lungo, ma bello, e poi per me è nuovo come tutti questi posti. Mi sembra molto strano essere, dopo 13 mesi, di nuovo in navigazione. 13 mesi fa ero al comando di un piroscafo, ed oggi sono marinaio, una bella differenza, ma a queste cose, in questi posti, ci si deve abituare. Il noto rumore dell’elica quasi mi fa piacere a sentirlo e quasi scordare le mie misere condizioni. Non mi hanno destinato di guardia, non so perché, così dormirò tutta la notte. Il viaggio prosegue normale, ed il nuovo giorno (14) ci trova in mare aperto, siamo ben scortati, ma ai pericoli quasi non penso perché sarebbe peggio. La mattina del 15 settembre mi sveglio in rada a Riga. Per dir la verità, queste due notti le abbiamo passate bene. Come precauzione, io e Bepi, dopo un piccolo esame, abbiamo deciso, che il caso di qualche sinistro, staremo a poppa, dato che li abbiamo i nostri alloggi. Credo che sia una cosa giusta, perché li almeno non saremo a contatto con i passeggeri, cioè i primi confusionari, ed anche le principali cause dei maggiori disastri. Dalla rada al porto di Riga c’è circa un’ora di navigazione nel fiume Duna. Della città ho visto solamente quello che si poteva vedere da bordo. Molti campanili a punta e molte graziose case, tutte con tetti molto spioventi: penso come me la caverò quest’inverno, quando ci sarà tanta di quella neve quassù? L’allarme qui non lo danno, solamente quando sparano le batterie. Da bordo però nessuno si muove. Quando sparano si sospende solo il lavoro, e tutti guardano in alto a cercare gli aerei. Che questa gente sia più coraggiosa di noialtri lo ammetto, ma non credo che si comporterebbero così se ci fosse un vero bombardamento, di quelli che ho visto in Sicilia. Io e Bepi siamo ai verricelli per tutto il giorno e parte della notte, fino a circa le 22. Ho dimenticato di dire che a Riga c’è un grande aeroporto ed il passaggio continuo di aerei da caccia. Il fronte quella volta era a circa 40 km dalla città, e si sentivano ogni tanto i colpi dei grossi calibri. Gli aerei tutto il giorno facevano la spola tra l’aeroporto ed il fronte, quindi un continuo passaggio. Alla mattina del 16 si continua a lavorare per imbarcare altro materiale. Tutto il giorno al verricello senza un minuto di sosta. A mezzogiorno pranzo alla svelta, per non dire alla marinara, e poi nuovamente al lavoro. Non ho avuto nemmeno il tempo di andare a vedere Vittorio, e si che era abbastanza vicino a noi. Insomma, dopo una giornataccia si parte per una isola vicina, Dago. Appena finita la manovra e rassettata la nave, dobbiamo mettere fuori le lance, pesantissime ed in pochi. Non capisco perché questa gente è così dura, tutte le volte che si arriva, e magari in rada: manovra con le lance. Io per conto mio le lascerei fuori e buonanotte, dato che in ogni buco che andiamo ci sono due rimorchiatori. Mah, comandano loro e bisogna ubbidire, dato che non siamo noi due soli a navigare. Sono, credo le nove di sera, che andiamo in cabina, stanchi morti. Ci addormentiamo subito come ciocchi, ed alla mattina alle sei ci svegliano. Bisogna proprio lavorare forte per poter dormire la notte tutta di un sonno, in tempo di guerra. Va bene che la posizione della nostra cabina è, per conto mio, meravigliosa, estrema poppa, e questo forse ci da un piccolo senso di sicurezza. Il rumore dell’elica ci fa poi da ninna nanna, così che il sonno si prende facilmente. La nave si ancora a circa 4 miglia da terra, e vicino a lei c’è la torpediniera, un piccolo essere che sta a galla per modo di dire, e che ha la pretesa di chiamarsi “Torpedinieren”. Non so se avrà 30 metri, è del tipo delle “T” austriache che andavano bene 30 anni fa, ma adesso? In questi mari poi? La discarica la facciamo a mezzo di una motozattera, in modo che, i tre giorni che abbiamo impiegato per il lavoro, sono passati abbastanza bene. Lavoro poco, forse tre carichi al giorno, il resto attendere che la zattera ritorni. Alla sera del 19 si riparte per Raval, sempre con la scorta del medesimo insetto, dove arriviamo alle prime ore del 20. In rada 2 ore, manovre delle lance e poi si entra in porto. Porto piccolo che nemmeno si sognava di ospitare navi simili, e non una ma fino a 5 o 6, e le altre che attendono in rada. Appena ormeggiati succede il caos vero e proprio. Dobbiamo imbarcare dei profughi, e tutti danno l’assalto alla nave; non bastano le tre scale che abbiamo. Hanno tirato fuori tutte le biscagline che avevano in coperta; tutti i cavi che avevano sottomano erano buoni per tirare su valige, pacchi e ceste. Io Bepi e gli altri marinai dobbiamo stare ai verricelli per tirare su i bagagli, mentre gli altri di bordo scendono a terra e prendono, o una cassa di vino, o un pacco di sigarette, oppure una bicicletta, o altro, e se li portano a bordo come cosa propria. Quello che è successo sulla nostra nave è successo anche sulle altre, ed in tutti i porti. Questa è la guerra, e ovunque ci si arrangia. Io e Bepi non abbiamo toccato nemmeno uno spillo, prima perché non avevamo la possibilità, e poi anche perché eravamo stranieri, “auslander” li chiamano qui, se ci pescassero a rubare, nelle nostre condizioni, non so se ce la saremo passata franca. Grazie al nostro amico di Lussingrande, abbiamo potuto ottenere un po’ di sigarette e sei bottiglie di vino. Lui lavorava per conto dei camerieri, che gli avevano ordinato di aiutarli. Ogni tanto sparatoria delle batterie di terra contro apparecchi di ricognizione, altissimi. Saranno state le 11 che un improvviso crepitar di mitragliere mi fa scappare dal verricello per cercar di raggiungere un posto più sicuro. Impossibile, la ressa di gente spaventata era tale che tutti si sono incuneati in una porta, senza poter più fare un passo. Visto ciò, ho preferito restare in coperta, ed ho giurato che d’ora in poi me starò il più lontano possibile dalla gente. Tre aerei russi da ricognizione hanno sorvolato bassissimi le tre navi, attirandosi dietro delle scariche di mitragliera, che sono risultate inutili. Come velocemente sono arrivati, così si sono allontanati, nascondendosi sotto le nuvole. Temevamo che più tardi avremmo avuto una visita più numerosa, ma, grazie a Dio, nulla è accaduto. Verso le 16, il comandante, visto che la nave era stracolma di passeggeri, fa levare i ponti e si attende la partenza. Nel frattempo però altri si sono imbarcati, arrampicandosi lungo le cime e le biscagline. Finalmente la nave si stacca, ed appena adesso ho potuto osservare la moltitudine di passeggeri e bagagli che ingombravano ogni angolo della nave. Io e Bepi ci siamo ficcati nell’estrema poppa, con l’intenzione di non abbandonarla fino a Danzica. Verso le 19 si salpa, scortati dal solito moscerino chiamato torpediniera; assieme ad altre navi si fa rotta verso sud. In queste circostanze ho potuto conoscere meglio il tipo nordico. Delle circa 2.500 persone che erano a bordo, non più di un centinaio saranno state sobrie, gli altri si sono dati al bere senza limiti, specialmente vodka. Da dove sia saltato fuori tutto quel liquore non so, probabilmente dai bagagli, ma quello che mi ha meravigliato di più era l’equipaggio della nave, tutti ubriachi fradici, compresi gli ufficiali. Avevano imbarcato tre maiali e in cucina si stavano trasformando in bistecche. Bepi ha dovuto andare a visitare il nostro compaesano cameriere. Io da parte mia non mi sono mosso da poppa, fino a che il mio amico non mi è venuto a chiamare, che mi volevano in cucina. Li mi hanno dato una bistecca di maiale con un panino imburrato, ed ho dovuto bere 4 bicchierini di vodka, alternati con un bicchiere di birra, secondo l’usanza nordica. Quello che sarà successo in quella notte alle donne e ragazze e facile da immaginare. Le cabine attigue alla mia ne ospitavano parecchie e si sono fatte sentire tutta la notte, perché cantavano gridavano ed anche vomitavano abbondantemente. Col pensiero alla mia cara moglie ed al mio bambino mi sono addormentato, non prima di essermi segnato e pregato il buon Dio affinché mi preservi da qualche disgrazia, dato che navigavamo in acque torbide. La notte la passo come meglio si può e la mattina mi sveglio a giorno fatto. I visi assonnati e gli occhi arrossati dei passeggeri rispecchiano la gazzarra notturna. Le ragazze con i capelli arruffati e gli occhi infossati erano brutte a vedersi. Povere ragazze, quante ne dovranno ancora passare prima della fine di questa guerra. La vista di questi disgraziati mi faceva ogni tanto venire in mente i miei cari e pensare alla loro sorte. Verso le 9 di mattina scendo per la prima volta in stiva dopo l’imbarco dei passeggeri. Restiamo poco perché il lavoro da fare era poco e soprattutto perché eravamo tutti desiderosi di aria fresca e non di quel buco puzzolente. Alle 10 un piccolo preallarme fa un po’ di paura tra la gente, immaginarsi se dovesse succedere qualcosa di serio! Pranzo e mi ritiro nella mia cabina. Dopo un piccolo sonno il rombo del cannone della nostra nave mi sveglia di soprassalto. Indi il segnale di allarme aereo. Indosso il salvagente o steiak, come lo abbiamo battezzato io e Bepi, e corro in coperta. Aiuto a caricare i colpi alla mitragliera a 4 canne; si spara per circa 5 minuti, poi i colpi diventano radi, fino a cessare del tutto. Siamo stati attaccati da 7 aerosiluranti russi, che si sono accaniti su una motonave accanto a noi, lanciandole contro 5 siluri ed un paio di bombe. La nave ha potuto evitare gli attacchi con pronte manovre, restando solo mitragliata, ciò ha causato tre morti ed una ventina di feriti. Dei 7 aerei io ho visto solo 2 che si allontanavano a pelo d’acqua. L’attacco è stato così improvviso che non so se ce la saremo cavata a poco prezzo. Il panico a bordo della nostra nave era così grande che appena allora ho capito che in caso di disastro è meglio arrangiarsi per proprio conto. Cercare di mettere le lance in mare era del tutto impossibile, perché erano già occupate da passeggeri uomini, armati fino ai denti, e non disposti a lasciare il posto a nessun costo. Pensare di ragionare con quella gente, in quelle condizioni, la cosa minima che ci potesse capitare è una scarica di pistola o mitraglia, ed andare all’altro mondo. Finito l’attacco si prosegue la navigazione normalmente. Alle 2 di notte si arriva in rada a Gottingen, ed alle prima ore del 22 entriamo in porto per sbarcare i passeggeri. Qui trovo una grande disillusione: tutte le lettere che avevo scritto da Danzica, fuorché la cartolina che avevo scritto a mio cognato Toni. Povera mia moglie, come si preoccuperà senza mie notizie. Penso a lei ed a mio figlio e mi viene da piangere essere così lontano da loro. Col lavoro le malinconie passano, ma non tanto presto e per tutto il giorno sono di cattivo umore a causa della posta. Saranno state le 16 quando i passeggeri hanno finito di sbarcare. Mi consegnano 8 prigionieri russi da sorvegliare mentre puliscono le stive. Loro pensano più a cercare qualcosa da mangiare tra le immondizie, piuttosto che alle pulizie. Mi arrabbio e finalmente col croato mi intendo un poco, e decido che due cercano da mangiare e gli altri scopano. Il lavoro così prosegue meglio e siamo più contenti tutti. Alle 7 mi danno il cambio e decido di scendere a terra con i miei compagni. Dopo aver cercato un locale adatto a noi (abbastanza di basso livello), per fare quattro chiacchiere e berci un bicchiere di birra, altrimenti resteremmo a bocca asciutta, perché il nostro vestiario non ci permetterebbe di avventurarci in locali più “normali”, dove ufficiali e soldati stavano a divertirsi con le loro donne. Ci ficchiamo in un cinematografo, e li passiamo due ore. Si ritorna a bordo più malcontenti che altro. La mattina dopo consegno la posta al primo ufficiale, e forse lui me la farà inoltrare. Alle 8 si parte, un’ora in rada, poi si parte improvvisamente, soli, con la scorta. In navigazione subito lavoro, mi sono bagnato come un cane per aver fatto lavaggio. Nel pomeriggio un colpo di vento mi porta via il berretto, così d’ora in avanti dovrò usare un berretto da soldato per coprirmi. La navigazione è calma, senza alcun disturbo, e la notte tra il 23 e 24 settembre entriamo in rada a Riga. Al mattino si entra in porto per imbarco di materiale per un’altra isola, Osel. Tutto il giorno si lavora, ai verricelli, io e Bepi ce la passiamo bene. Nel pomeriggio Vittorio ci viene a trovare. Sembra che lui abbia più libertà di noi. Mentre lavoriamo facciamo quattro chiacchiere col caro amico, ma anche lui deve andarsene. Gli abbiamo regalato una bottiglia di vino, ed è contento come una Pasqua. Presto ci separiamo perché anche lui ha il suo servizio. Verso sera assisto all’imbarco di feriti in un piroscafo vicino a noi: uno spettacolo poco attraente vedere tanta gente ridotta in pietose condizioni. Verso le 19 ci si stacca. Alla notte navigazione senza problemi, per cui si dorme tranquilli. Verso le 6,30 del 25, giorno del compleanno della mia Cate, mi sveglio per un forte rumore d’elica. Avanti e indietro a tutta forza, ogni tanto la nave ha grandi scosse. Intuisco subito che ci siamo incagliati ed avverto Bepi, lui pure si era svegliato. Ci vestiamo, ed in coperta ho la certezza di quanto prevedevo. Siamo incagliati sul lato destro della nave, in corrispondenza della sala macchine. Tutto il santo giorno era un continuo tirare di cavi da una parte all’altra per darli ai rimorchiatori. Il 25 settembre hanno tentato di disincagliare con la nave scorta, ma niente. Alla sera improvviso allarme. Un aereo basso sul mare e diretto su noi. Le mitraglie cominciano a sparare a più non posso e tutto da un momento all’altro prevedono il lancio di un siluro. Niente di tutto questo, perché l’aereo si fa riconoscere, era tedesco e gira a largo. La questione si placa, si discute un po’ e l’incidente si chiude, e poi a notte fatta, ognuno si prende il suo posto di guardia. Io la prima notte la guardia la faccio a poppa e me la passo discretamente. Si stendono i cavi di rimorchio su un’altra nave, ma anche questo tentativo non riesce. La nostra guardia, dalle 0 alle 6, questa volta è sul ponte ed è la prima volta che lo vedo internamente da quando sono a bordo. Alla mattina del 27 settembre si danno altri cavi ai rimorchiatori che sono arrivati. Altra fatica, perché i cavi sono andati due volte in pezzi. Continua lo sbarco dei materiali in gran fretta. Non so, saranno state le 11 quando arrivano degli aerei che si dirigono, pelo d’acqua su di noi. Allarme, io e Bepi scappiamo a riparo a prua. Questa volta si tratta proprio di apparecchi nemici che tentano di colpirci. L’attacco, non so se è durato mezzo minuto. Da dove mi sono ficcato sento un’intensa sparatoria da bordo. Il rumore caratteristico del fischio degli apparecchi quando sono su di noi, e poi un paio di colpi secchi e forti, queste sono bombe cadute in mare, Silenzio improvviso. Salgo in coperta, e distante vede i 7 aerei che si allontanano bassi sul mare. Due perdono quota e precipitano, altri due sono stati visti dal ponte cadere ed un quinto che si allontanava lasciando dietro di se una scia di fumo. L’hanno pagata cara a venirci ad attaccare. Dei 7 aerei, quattro sono stati abbattuti ed un quinto probabile. Danni alla nave, nessuno. La coperta era tutta bagnata per le bombe scoppiatele intorno. Due siluri sono passati un po’ a prua, ed una bomba, lanciata, non voglio esagerare, da neanche 30 metri di altezza, al centro della nave, ha strisciato la pittura del fumaiolo ed è caduta in mare. Finito l’attacco si continua il lavoro, come pure i rimorchiatori continuano a tirare. Verso sera altro allarme. Un aereo nemico è accolto a colpi di cannone e mitraglia e si allontana subito, quando si accorge di essere stato visto. Alla sera arriva un altro rimorchiatore, nientemeno che da Danzica, portando anche delle pompe per sbarcare la zavorra. Anche lui prende un cavo, ora sono in 4 a tirare, ma niente. Alla notte altra guardia di 6 ore, interminabili perché dovevo stare attento ai cavi, che non andassero in pezzi. La mattina del 28 settembre continua la discarica, che termina verso mezzogiorno. Si rassetta la nave lasciando libere due stive per lo sbarco della zavorra. Il pagliolo viene tolto con non poca fatica, e si attendono i prigionieri che vengono a lavorare. Arrivano verso le 17 in una motozattera ed iniziano subito a lavorare. Noi ai verricelli. Verso sera arriva un quinto rimorchiatore, che prende anche lui un suo cavo. La prua è tutta imbragata, sul castello, attorno alla boccaporta N° 1 da tutte e due le parti. La macchina aiuta lo sforzo dei rimorchiatori, ma niente. I cavi non sono tanto grossi per cui non si fidano di fare degli strappi. In quella sera altri due cavi si sono rotti. Prima delle 6 un altro aereo tenta di avvicinarsi, ma viene respinto. Più tardi assistiamo ad un altro bombardamento sull’isola, distante però. Abbiamo sentito soltanto scoppi della contraerea e di bombe, ed alte colonne di fumo; ogni tanto si vedeva qualche aereo passare lontano. Io e Bepi siamo franchi fino a mezzanotte. La notte è lunghissima e fuori fa abbastanza freddo, dato che il nostro lavoro ci impedisce di muoversi. Verso le 4 da levante si scorgono dei grandi bagliori di fuoco tutto il cielo da quella parte ne era rischiarato. Provenivano, come ho sentito più tardi, da combattimenti nell’isola di Moan, distante da noi circa 20 chilometri, in quella notte occupata dal nemico. Finalmente arrivano le 6 ed andiamo a riposare tutti infreddoliti. Alle 9 mi sveglio, e dai movimenti della nave capisco che è stata disincagliata. Meno male, perché erano stati già fatti i piani di abbandono nave, e mi sarebbe dispiaciuto essere destinato a terra, a rinforzare la difesa dell’isola, considerando che non ho mai sparato un colpo di fucile, se non con quello da caccia. Il resto del personale era quasi contento di partecipare alla difesa dell’isola. Poveri illusi, cento uomini in più non avrebbero fatto alcuna differenza. Non restiamo tanto a letto, perché il nostromo ci viene a chiamare per rassettare la nave, abbassare i bighi e chiudere i boccaporti, si vede che c’è fretta di allontanarci. Verso le 10,30 si parte con la scorta e coi rimorchiatori che ci seguono, come i pulcini dietro la chioccia. Meglio che siamo in navigazione, perché restare sull’isola era un affare serio. Quel progetto aveva impensierito soltanto una piccola parte dell’equipaggio, i più vecchi ed ammogliati, che avevano già fatto dei piani per conto loro, di ritornare in Germania con le lance. Anche quelle sere, quelli che avevano delle bottiglie, avevano dato fondo a tutte le riserve, riducendosi in condizioni pietose. Il cuoco offriva spesso da bere, mi aveva chiamato spesso in cucina per qualche bicchierino di vodka accompagnato con della birra. Aveva in testa dei progetti, che si capiva che erano dettati più dall’alcool che dal cervello. I prigionieri russi che erano stati destinati alla discarica sono rimasti a bordo e ci aiutavano a rassettare la nave. Fortuna che sono rimasti loro, perché assieme abbiamo fatto tanto lavoro, che da soli sarebbe stata una fatica enorme. Per qualche sigaretta ed un pezzo di pane, la squadra di 6 uomini ha lavorato abbastanza bene, ed anche con volontà. Alla mezzanotte del 30 settembre arrivammo in rada a Danzica.
1/10/44. Tutto il giorno in rada. Si parla a bordo che dobbiamo aspettare che il bacino sia libero per i lavori, che dureranno non più di 7-8 giorni. Tutti a bordo fanno i musi lunghi perché speravano che la sosta della nave si prolungasse di più. Adesso che ormai è tutto rassettato, si gira in coperta per far passare più il tempo, che altro. Giorno e notte pure quieti.
2/10. Sempre in rada ad aspettare ordini.
3/10. In rada fino alle 15, ora in cui si salpa e si entra in porto. Alle 17 entriamo in bacino. Verso le 18 vado a terra col Bepi per vedere qualche amico, ed infatti trovo Donato Boni e Teo Zucchi in una solita birreria. Loro pure non hanno ricevuto posta da casa, e ciò mi mette un po’ il cuore in pace, perché così non sono il solo ad essere senza lettere. Vuol dire proprio che la posta non funziona. Si chiacchiera del più e del meno e verso le 22 si ritorna a bordo.
4/10. Si lavora poco e faccio una scappata per vedere i danni. La nave è abbastanza sconquassata sotto la macchina, due buchi grandi ed un paio di piccoli, ma poi molte lamiere e le sottostanti ordinate sono state ingobbate. Se avranno l’intenzione di riparare tutto passeranno più di 7 giorni. Al pomeriggio ordine di uscire dal bacino perché li non potevano fare i lavori. Alle 15 si esce con due rimorchiatori, si va ad ormeggiare in un posto isolato, il medesimo dove 20 giorni addietro avevamo fatto la disinfestazione. Durante la manovra si va a toccare il piroscafo ”Deutschland” facendo dei piccoli danni all’aletta del ponte.
5/10. Sempre ormeggiati.
6/10. In attesa ordini.
7/10. 8 ore di lavoro per passare il tempo e poi alla sera mi lavo un po’ di biancheria. Sbarca l’amico. Pranzo.
8/10 Sempre i soliti lavori di bordo. Mi sono fortemente raffreddato, alla notte ho un po’ di febbre. Bepi passa cameriere.
9/10. Sono a letto e me la passo bene.
10/10. Vado dal medico, mi trova solamente catarro e forte raffreddore e mi da tre giorni di riposo. Ho scritto oggi a terra una cartolina alla mia Cate. Forse questa arriverà perché me l’hanno ricevuta subito e timbrata. Alla sera rientro stanco ed affamato. Dal medico ho dovuto stare per ben 5 ore ad aspettare il mio turno. A bordo trovo finalmente la prima cartolina che ricevo dacché sono via da casa. È di Toni e mi fa piacere di sapere che sta bene; mi da il suo indirizzo e gli rispondo subito, almeno così avrò ogni tanto posta.
11/10. Sempre a riposo. Al pomeriggio vado a terra per scrivere altre cartoline a casa ed a Toni; per far passare il tempo vado a due cinematografi.
12/10. Sempre a riposo.
13/10. Solito.
14/10. Si lavora fino a mezzogiorno e poi festa perché è sabato. Lavo un po’ di roba ed alla sera resto a bordo perché sono di guardia.
15/10. Sono stato questa mattina in cerca di uno studente di Lussingrande, un certo Scricchia per vedere se lui ha ricevuto posta. Non lo trovo a bordo. Forse che nel pomeriggio andrò a Gotenhafen per cercare qualcuno che abbia ricevuto lettere. Ho fatto una gita inutile perché non ho trovato nessuno. In viaggio ho conosciuto 4 bolognesi, ex soldati, e con loro ho passato un’oretta in un caffè di Gotenhafen. Verso le 17 ritorno alla stazione, e via col treno nuovamente a Danzica. Li attendo ancora degli amici, ma nessuno si fa vivo, e verso le 20 ritorno a bordo, stanco ed affamato.
16/10. Al mattino, come al solito lavoro non molto pesante, il tempo passa lento. Al pomeriggio io e Bepi siamo chiamati alla K.M.D. per chiarimenti; andiamo per niente, perché non serviva. Bepi ritorna presto a bordo, ed io rimango a terra per andare dal medico; dopo un’ora di attesa il medico non si vede e me ne vado perciò in un cinematografo a passare due ore. Ritorno a bordo e verso le 20 mi ficco a letto. Oggi ho ricevuto una cartolina da Vittorio, che mi ha fatto un po’ di compagnia e tanto piacere. Ho risposto a lui e scritto anche a casa. Quest’ultima cartolina non so se arriverà, perché oggi è arrivata a bordo una circolare che dice che i confini con la Croazia sono chiusi e che per noi licenze non esistono. Spero che con le nostre case ci sarà qualche comunicazione e che almeno la mia Cate riceverà ogni tanto qualche cartolina. Dacché sono a Danzica le scrivo ogni due o tre giorni. Chissà come starà quel tesoro di mio figlio, e come sarà cambiato da quando sono lontano; sono più di due mesi che non lo vedo e chissà quanto tempo ancora passerà finché non lo rivedrò. Col pensiero a lui ed alla mia Cate mi addormento ed ho passato bene la notte perché ho sognato di loro.
17/10. Oggi altra giornata passata, per dir la verità, bene in quanto al lavoro. Poca cosa si cambia in un giorno con questa gente. Basta essere in qualsiasi posto che lavori che nessuno ti rompe le scatole. Il tempo per me è lungo perché sono sempre col pensiero a casa. Questa sera sono di guardia, resto a bordo.
18/10. Anche oggi la giornata è passata benissimo. Di lavoro poco e il mangiare è buono. Sono di guardia e non scendo a terra.
19/10. Altra giornata normale e non tanto freddo. Di lavoro poco. Al pomeriggio mi hanno consegnato pittura e pennello, finalmente dopo 9 anni ricomincio a pitturare a bordo. Sempre veramente mi piaceva questo lavoro, e se si pitturerà spesso, mi sarà un passatempo, non tanto brutto. Al pomeriggio ho avuto una lettera dal Toni, che mi ha fatto piacere, di più perché mi ha fatto sapere di aver ricevuto lettera da casa, con cui gli hanno annunciato la nascita del mio caro figlio. Ciò vuol dire che la lettera è stata spedita dopo che io sono partito e che tutti stanno bene. Sono contento perché questa è la prima notizia in diretta che ricevo dai miei. Poca cosa ci basta per noi poveri isolati e deportati, ma basta. Questa sera avevo deciso di andare a terra, ma giusto all’ora di cambiarsi, viene l’ordine di andare ad imbarcare le provviste. Naturalmente si perde un’ora ed anche la voglia di andare a terra. Scrivo a Toni ed a casa, con la speranza che quest’ultima lettera venga recapitata. Provo imbucarla come feldpost e chissà che questa volta non riesca ad arrivare. Fra tante lettere e cartoline che ho scritto alla mia cara mogliettina, chissà quante le saranno arrivate e quante lettere lei mi avrà scritto. Quante parole care di mio figlio, della sua salute gireranno per questa Europa infuocata senza arrivare al suo papà che le aspetta con tanta ansia, ed a cui farebbero tanto, ma tanto bene. Caro Giovanni, è meglio che abbandoni questo argomento, perché altrimenti finirai col non dormire, e starai peggio.
20/10. Ho passato una nottata brutta, non ho chiuso occhio, questo a causa di avermi visto addosso una pulce, non sono stato capace di prenderla al primo colpo, perciò se n’è scappata. Non so cosa sarà, ma tutte le volte che vedo una pulce, mi prende su tutta la pelle un prurito insopportabile.
21/10. Da quando sono via da casa, spesso mi capita di non sapere in che giorno della settimana siamo, perciò ho deciso di farmi una tabella per togliermi ogni dubbio. È fatta un po’ alla buona, ma credo che servirà allo scopo. Dunque secondo la tabella calendario oggi è sabato e si lavora mezza giornata. Effettivamente si è lavorato meno di mezza giornata. Mi hanno messo assieme ad altri due a dare una passata con la manichetta alla coperta. Lavoro bellissimo e non freddo, perché oggi era una giornata magnifica. Siccome sono di guardia, chiedo di poter scendere a terra per comprare un po’ di roba per spedire a Toni (Belcic). Subito nel pomeriggio scendo, e credo di aver girato, non esagero, una ventina di negozi, ma nessuno ti vuole dare niente, anche se ho il buono dell’ufficio dell’abbigliamento, e si che ne hanno di roba. Probabilmente non gradiscono gli stranieri. Stufo di girare per negozi, vado a Menfarvasser, un sobborgo di Danzica vicino al posto dove siamo ormeggiati, con la speranza di trovare qualcosa. Niente. Ho trovato invece due prigionieri italiani e ci siamo seduti in un bar a fare quattro chiacchiere. Verso le 19 ritorno a bordo, mi dispiace per Toni, a cui avevo promesso un paio di guanti.
22/10. Giornata secca e tira un fresco vento da NE, tempo adatto per asciugare la roba, perciò forza Giovanni e mettiti a fare il bucato. Verso le 11 ho dovuto partecipare ad una partita di calcio, per non stancarmi mi sono messo in porta, Bepi invece si scalmanava dietro il pallone. La partita la facevamo tra personale borghese e militare, e abbiamo perso per 8 a 0, i borghesi erano contenti di me perché mi sono comportato bene in porta. Sarà? La prossima domenica proverò a farmi passare 16 palloni. Nel pomeriggio mi metto a letto per fare un pisolino, ma alle 14,30 mi sveglia Bepi, con Mario e Denzio che sono venuti a trovarci. Si chiacchiera fino alle 18, poi andiamo a terra a fare quattro passi. Abbiamo bevuto un paio di birre, ma ci siamo presi anche una bagnata. Verso le 22 vado a dormire, in un letto fresco e profumato, perché mi sono lavato anche le lenzuola.
23/10. Ho dormito proprio bene questa notte, tutta una tirata fino alle 7,20 del mattino. Si incomincia la settimana con la solita pitturazione, tempo variabile, qualche goccia, ogni tanto un po’ di sole, soliti tempi di quassù. La giornata passa presto. La sera, verso le 17,30 mi vengono a trovare Donato Boni ed un allievo ufficiale di Pola, un certo Scricchia che abita a Lussingrande ed un ragazzo di Neresine che non vedevo da Amburgo, uno dei due gemelli, il Dici (Gaudenzio) Soccoli (Filicic). Ho piacere fare quattro chiacchiere con loro, e naturalmente si parla della vita di bordo e di avventure di mare. Loro le hanno vissute più brutte di noi e quindi hanno più cose da raccontare. Donato poi ha da raccontare più di tutti, perché è imbarcato su una piccola nave ospedaliera che viaggia continuamente. Bravo ragazzo, racconta le sue avventure, così come se niente fosse, e si che ne ha passate delle belle. Verso le 19 vanno via assieme a Bepi, io non scendo perché sono di guardia.
24/10. Anche oggi si pittura, tempo solito e la giornata passa presto. Alla sera, con Bepi e Donato, che è venuto a trovarci, scendo a terra per incontrare gli altri. Ritorno a bordo. Anche oggi niente posta, domani scriverò a casa.
25/10. Anche oggi la giornata passa come le altre, si pittura il ponte lance. A mezzogiorno ricevo una lettera da Enrico Bracco da Amburgo, mi informa che Giorgio Sigovini va per un mese a casa perché ammalato, beato lui, forse che mi porterà una lettera che avevo consegnato a Rico, quando si era sbarcato. Nella medesima lettera ho ricevuto pure il nuovo indirizzo di Toni Belcic. Alle 17, finito il lavoro, mi metto subito a scrivere a Rico e Toni Belcic, ed a casa. Mi fa pensare il silenzio di Vittorio. Questa sera ho sentito per la seconda volta che l’Isar è andato a fondo, non ci credo ancora, ma se fosse vero, sono sicuro che lui se la sarà cavata.
26/10. Hanno dimenticato di svegliarmi, perciò ho dormito fino alle 8,15, pitturazione, giornata fresca, le dita si gelano più degli altri giorni. Alle 17 finisce il lavoro, non avevo l’intenzione di scendere a terra, ma siccome il terzo ufficiale mi ha dato un biglietto per il cinema per conto dell’ufficio lavoro (Orbeit ….), decido di andare a terra per vedere il film. Sono rientrato alle 23,20, molto avventurosamente perché c’era nebbia ed il vaporetto non faceva servizio.
27/10. La nebbia non c’è più, ma una forte brina copre tutta la coperta. Il freddo si fa sentire, specialmente per noi che pitturiamo in coperta, a momenti non sentivo le dita e pensare che siamo solo alla fine di ottobre. Mi domando cosa sarà di noi nei crudi mesi invernali, poco vestiti e non avvezzi al clima di queste latitudini. Speriamo che prima che arrivino i mesi freddi il Signore ci faccia tornare a casa e faccia finire questa guerra; oggi lavorando pensavo che la cosa potrebbe accadere, visto che Romania, Bulgaria ed Ungheria hanno già capitolato, non c’è nulla da stupirsi se la Croazia, la nostra nuova e amata (???) patria farà la stessa fine. Potrebbe darsi che noialtri si finisca in un campo di concentramento, per conto mio sarebbe meglio quello, che navigare. Ancora niente posta da casa. Almeno qualche amico mi scrivesse due righe, Vittorio non si fa sentire ancora, dove sarà?
28/10. Come avevo previsto la giornata e molto fredda. Mi sono risparmiato il lavaggio della coperta, perché mi hanno mandato a fare pulizia in un porcile situato nel secondo corridoio della stiva n° 1, che è abitato da tre bei maiali, lavoro adatto per un capitano di lungo corso! A proposito di decoro, credo che questo vocabolo sia meglio dimenticarlo in tempo di guerra, meglio avere la salute anziché il decoro, perché penso sempre che a casa mi aspettano due tesori cari, che forse a quest’ora piangono per non avermi con loro. Alle 10 termino la pulizia poi rassetto la coperta, perché alle 11 si dovrebbe andare in bacino. Arrivano le 11, ma il movimento è rinviato alle 13. Alle 13 non arrivano i rimorchiatori, e tutto viene rinviato a domani, domenica, alle 6,30. Il pomeriggio faccio un pisolino e poi decido di andare a terra con Bepi. A terra mi trovo coi soliti amici, ed altri di Pago, di Arbe e di Basca. Verso le 23 rientriamo a bordo e troviamo Mario che ci aspetta. Con lui altre quattro chiacchiere e poi a letto a dormire.
29/10. Alle 6,30 sveglia e alle 7,30 inizia il movimento tanto atteso dopo 24 giorni. La manovra dura due ore circa, ma intanto tutta la mattinata è passata lavorando. Nel pomeriggio non scendo a terra perché di guardia, ma ho la visita di Teo, Mario e Denzio. Scrivo un’altra lettera perché Teo mi ha avvertito che un altro croato di Pago va a casa. Non so quante lettere ho già scritto, qualcuna spedita anche brevi manu, speriamo che qualcuna arrivi. Ho notato che Bepi questa sera è un po’ nervoso, parla volentieri di donne, che vorrebbe far conoscenza con qualche ragazza, è tutto per dimenticare, dice lui, il gran lavoro in saletta e gli ordini che gli danno gli ufficiali. Per conto mio è invece l’età che si fa sentire, e bisogna consigliarlo di fare attenzione. Oggi ha visto la ragazza di uno di cucina e credo che si sia eccitato un poco. Che può fare? È giovane, e lo sguardo accompagnato da un sorriso di donna lo ha mandato su di giri. Per questa sera gli ho consigliato di fare un bagno e poi gettarsi addosso un bugliolo di acqua fredda. Sono certo che si sentirà meglio se seguirà il mio consiglio.
30/10. Ho dormito 11 ore di fila e mi hanno fatto bene. Questa mattina inizia il lavoro settimanale con la solita pitturazione, fa un po’ fresco e nel pomeriggio l’aria si è ulteriormente rinfrescata ed il lavoro si è fatto più duro. Anche oggi niente posta, anche se mi aspettavo qualche lettera, anche se non da casa, ma almeno dagli amici. Alla sera Teo mi da una buona notizia: Vittorio è arrivato a Danzica. Ci vestiamo, io e Bepi, ed assieme a Teo e Denzio andiamo alla solita birreria, dove infatti troviamo Vittorio che placidamente si sta bevendo la sua birra. Ci salutiamo fraternamente e mi racconta le sue avventure. Ha fatto nel frattempo un paio di viaggi in Danimarca e Norvegia, e tutto gli è andato bene. Si è ben vestito ed anche calzato, insomma vedo che tutti se la sono passata meglio di me: si vede che sono nato sotto una cattiva stella. A Gotenhafen ho visto diversi amici, tra cui Bepi Cattina e Mario Rocchi. Di Mario mi raccontano che si è messo in testa di andare a casa e sia mezzo inebetito. In macchina dove lavora, non fa altro che disegnare sulle pareti col gesso il suo cane Argo, ora in una parte, ora in un’altra; insomma, il povero Argo, anche qui nel Baltico, lontano da casa oltre 2000 km, cammina su e giù per la sala macchine, dove è imbarcato, tra le risate dei macchinisti, ed anche le nostre. Bevendoci la birra, io racconto quello che ha combinato Mario Zoroni (Rossich), e così passiamo bene la serata. La storia di quest’ultimo è anche bella. Imbarcato per la prima volta che faceva delle prove di lancio di siluri (ndr: era il suo primo imbarco, perché è stato deportato a 17 anni e aveva appena finito la quarta classe dell’Istituto Nautico di Lussino, gli mancava un anno per il diploma di Capitano, alla fine è stato l’unico di Neresine che è morto, nell’affondamento della sua nave), un giorno ha malamente imbragato un siluro, che messosi in moto, ha rotto la rete che lo teneva, e con la prua inclinata in avanti, se n’è andato per i fatti suoi perdendosi. Il povero Mario per la paura avrà certamente cambiato tutti i colori dell’iride pensando alla severa punizione che lo aspettava. Essendosi però la scena svoltasi comicamente, ha provocato le risate degli ufficiali e marinai ivi presenti, e Mario se l’è cavata con sole due pedate, consegnatele dal nostromo. A tarda sera ci ritiriamo tutti contenti per aver passato assieme una bella serata.
31/10. Da oggi il lavoro incomincia un’ora prima, a causa dell’oscurità della sera. Lavoriamo fino alle 10, poi ci fanno andare in una saletta improvvisata nel corridoio della stiva 5, tutta addobbata, Un gerarca del partito ci tiene una conferenza di un’ora e mezza. Con quel poco di tedesco che comprendo, ho potuto capire queste cose:– Dapprima ha parlato del pericolo che corre la Germania che ha il nemico alle porte di casa. Ha fatto la descrizione delle disgrazie che avrebbero subito i tedeschi in caso di eventuale sconfitta. Da parte russa si attende una deportazione in massa, 20 milioni, ha detto, dovrebbero andare a popolare le sconfinate regioni della Siberia, che è una volta e mezza più grande dell’Europa ed ha solamente 4 milioni di abitanti. Ha descritto bene le regioni squallide, desolate e gelate di quella parte del mondo, e della possibilità di residenza e lavoro che avrebbero trovato. Gli Americani li vorrebbero addirittura sterilizzare, ha detto l’oratore, secondo un libro pubblicato in America. Ho osservato che queste parole hanno suscitato una viva attenzione nei miei compagni. L’oratore ha proseguito dicendo che non importa che le armate tedesche sono andate da Stalingrado alla Prussia orientale, da Alessandria a Bologna, da Brest ad Acquisgrana, esse finiranno col sormontare tutte le difficoltà, perché devono vincere, perché sono aiutate dal lavoro degli operai tedeschi e dalla mente dei suoi scienziati. La tecnica tedesca ha vinto il monopolio americano del petrolio trovando la benzina sintetica, ha vinto il monopolio britannico del cauciù, sostituendolo con la gomma sintetica. Martella giornalmente con la V1 Londra e le regioni inglesi. Noi abbiamo ancora i V2, V3, V4 e V5 che faranno la loro apparizione al momento opportuno. In quanto ai bombardamenti americani, ha detto che non riusciranno mai a vincere la tenacia del popolo tedesco, saranno anzi ad inasprirlo di più. Da quello che ho potuto capire, perché lo ascoltavo attentamente, ha detto che un territorio molto piccolo della Germania sono caduti contemporaneamente 60 bombardieri terroristici e che una volta non sono rientrati in Inghilterra 300 bombardieri. Di questi fatti Churcill è informato e si aspetta ancora delle notizie più brutte. Che sia questa una nuova arma? Mi sono domandato. In conclusione, insomma, ha detto l’oratore, le nuove armi faranno capovolgere la situazione quando sarà il momento opportuno. Un’ora e mezza è durata la conferenza, che ha soddisfatto tutti, fuorché il sottoscritto, perché per andare a casa ce ne vuole ancora del tempo. Si capisce che ognuno tira l’acqua al suo mulino, specialmente io che non vedo l’ora di poter stringere ed abbracciare i miei cari. A mezzogiorno ricevo una lettera da Belcic che mi ha fatto un po’ più contento.
1/11. Inizia un altro mese con la solita pitturazione. Niente posta. Alla sera a terra trovo molti amici, tra cui il maestro di Lussingrande Scricchi che era imbarcato sul S.S. Bremenhaven, che non esiste più, perché i Russi l’hanno affondata in navigazione, da Liban a Danzica, era piena di soldati. Morti, feriti ed anche prigionieri; interessante che lui si sia salvato, quello che mi ha raccontato sarebbe lungo da scrivere, basta a tenerlo a memoria. Quello che lui ha guadagnato è che l’hanno vestito tutto a nuovo e che lo mandano ad Amburgo, e chissà che lo mandino a casa.
2/11. Mi sono messo in testa di fare un telegramma a casa. Alle 14 vado a terra con un ufficiale per fare il telegramma, ma arrivati alla posta la polizia ci ferma, la posta non accetta nulla, ci danno un indirizzo di Berlino, vado fuori, spedisco una cartolina e ritorno a bordo. Alla sera in un bar trovo una gran parte degli amici, fuorché Teo e Vittorio, oggi è partito uno di Basca, gli ho dato una lettera.
3/11. Anche oggi giornata solita, si pittura. Alla sera abbiamo ascoltato la radio, io Donato, Mario e Teo, ed abbiamo inteso che i partigiani hanno occupato Zara. Abbiamo parlato di casa, cosa faranno ora a Neresine quelli che ci hanno mandato quassù? Per conto mio non se la caveranno tanto bene ed in questi giorni più di uno si pentirà per quello che ha fatto. Speriamo che Dio sia giusto e che faccia qualche cosa. Fra chiacchiere è venuta mezzanotte, e siamo andati a letto.
4/11. Pensare che oggi, 26 anni fa finiva la prima guerra mondiale, io ero piccolo ma mi ricordo tutto di quel giorno come fosse ora, ma siccome questa non ha intenzione di finire, mi tocca star qui a lavorare. Oggi, sabato, mezza giornata di lavoro, avevo deciso di andare a fare 4 passi con Donato, lo attendevo in cabina, ma invece e arrivato Hans per dirmi che bisognava imbarcare il ghiaccio, bella fregatura, anziché a terra, debbo portare, non so quante stecche di ghiaccio dalla banchina fino a bordo, attraverso il bacino, circa 300 metri, poi oltre 30 gradini, ho finito alle 16,30. Alla sera vado a terra a cena con Denzio ed uno di Lussino. Poi a letto. Denzio dorme con noi perché nella sua nave fanno la disinfestazione.
5/11. Credo che ho dormito fino alle 9, poi è venuto a svegliarmi il nostromo, e con lui in cabina, ci siamo bevuti tutte le bottiglie di acquavite che avevano distribuito ieri sera. Ho preso una mezza “stecca” ed il nostromo una intera. Pranzo e di nuovo a letto. Alle 16 mi svegliano Bepi, Mario e Lino Bracco, quest’ultimi due venuti da Gotenhafen a trovarmi. Fino alle 18 si chiacchiera in cabina, naturalmente di cosa e di come sarà laggiù. Bracco mi racconta la storia del povero Dumic, che non potendo lavorare a causa del suo cuore malato, lo avevano messo dentro per 8 giorni. Finalmente riesce a passare una visita da un dottore un po’ più umano, che lo trova gravemente ammalato ed inabile a qualsiasi lavoro, lo sbarcano dalla baleniera e lo mandano ad Amburgo, a dispetto degli ufficiali che avevano già fatto dei progetti vendicativi contro di lui. Alle 18 si decide di andare tutti assieme al Lager 7, dove dei prigionieri italiani danno una rappresentazione, siamo in molti questa volta: io, Bepi, Denzio, Teo, Mario e Lino. Strada facendo raggiungiamo due signorine, Bepi e Mario si fanno sotto e attaccano discorso, Mario è più audace del suo amico. Quando arriviamo al portone del Lager, ci accorgiamo che l’amica del Bepi zoppica da una gamba, e fra tante risate entriamo in sala. I due dongiovanni, una volta nel Lager, sono stati licenziati ed hanno dovuto così accontentarsi della nostra compagnia. La rappresentazione è stata discreta, e di più non si poteva pretendere da poveri prigionieri che lavoravano quassù da oltre 15 mesi, maltrattati ed anche mal nutriti. In sala ho incontrato uno di Pola, che mi ha detto che badogliani ed inglesi sono sbarcati in tre punti della Dalmazia, ed anche vicino a Pola. A questa notizia sono rimasto di stucco, pensando che mia moglie e mio figlio sono forse in un inferno, e se la notizia è vera, questo vuol dire che fino alla fine non potrò avere notizie di loro. Spero che nella nostra isola non ci siano combattimenti e che i nostri cari non abbiano a subire qualche conseguenza, spero che si trovino al sicuro in quel beato Verin. Tutta la sera poi sono rimasto pensieroso, come i miei compagni a cui avevo comunicato la notizia, alle 20 termina lo spettacolo, accompagniamo Mario e Lino alla stazione e torniamo a bordo; anche questa notte Denzio dorme con noi.
6/11. Incomincia la settimana con la pioggia, ma mi mettono lo stesso a pitturare. Al pomeriggio ricevo una lettera dal Toni Belcic, Finalmente dopo tanti giorni. Alla sera vado con Denzio e Donato al cinematografo; Donato ci saluta perché farà i viaggi da Liban a Pillon, dunque poveretto sarà sempre sotto.
7/11. La mattina bella giornata, si pittura, il pomeriggio pioggia. Scrivo due lettere così passo il tempo. Viene trovarmi Teo e mi porta una bottiglia di birra. Passiamo la serata chiacchierando.
8/11. Oggi scrivo a Toni, perché anche lui, poveretto, si merita un po’ di compagnia. Alla sera mi incontro con Denzio, Donato e Menigheto Mascarin in un bar a bere una birra. Loro poi vanno in cerca di dolci, ed io al solito cinematografo, oggi sono abbastanza nervoso, perché mio figlio compie tre mesi, anche loro saranno tristi pensando a me, chissà quando potremo rivederci.
9/11. La pitturazione si sospende perché piove. Non potendo stare senza fumare vado un salto a terra e trovo Denzio e gli scrocco un po’ di tabacco; poveretto, me ne ha dato anche troppo e lo ringrazio di cuore, dicono che oggi andremo fuori dal bacino, peccato perché ce la passavamo abbastanza bene. Ho sentito che l’Isar è a Gottingen, forse vedrò Vittorio uno di questi giorni, se domenica sarò libero dalla guardia andrò un salto a trovarlo.
10/11. Questa mattina quando mi alzo, trovo la nave in acqua, vuol dire che hanno lavorato sodo questa notte, io non li ho sentiti, si vede che dormivo sodo anch’io. Alle 11 si esce dal bacino ed alle 14 siamo ormeggiati in un posto lontanissimo dalla città. Volevo andare a terra con Denzio, ma il duro lavoro fino alle 19 e la pioggia, mi hanno fatto rinunciare. Oggi ho ricevuto una lettera da Marino Succich (Pancrazio), che è quasi un anno che è quassù in Germania, gli scriverò questa sera stessa.
11/11. Sabato, giornata di poco lavoro, dalle 7 alle 7,30 ho tagliato un cavo di ferro, poi mi hanno dato 4 prigionieri russi e con loro ho fatto qualche lavoretto nella stiva 5. Questa mattina il telegrafista mi chiama, assieme a Bepi, e ci consegna a ciascuno la targhetta da appendere al collo, il mio numero è 39741 e quello di Bepi, il successivo, 39742, quindi oggi siamo diventati un numero. Una volta numerati, caro Giovanni, si appartiene a loro, come da noi quando si fanno sbelesit (marchiare) gli agnelli. Nel pomeriggio, tanto per non essere un maiale, mi lavo un po’ di roba, non tanta perché ne ho veramente poca. Avevo l’intenzione di lavare anche la biancheria del letto, ma causa la penuria di acqua questa operazione la devo rimandare a domani. Verso le 17 distribuzione di tabacco, una sgradevole sorpresa mi attende, non più di 12 sigarette al giorno. Mi lamento col secondo ufficiale, e lui mi spiega che dalla Turchia non ne viene più, quello della Bulgaria e della Serbia se lo fumano i russi, e noi tedeschi dobbiamo accontentarci delle rimanenze che abbiamo in casa. Finalmente ho trovato uno che ha detto la verità, potevano non fare la guerra, si avrebbe a quest’ora non solo il tabacco, ma quella santa pace e tutte quelle altre cose che sono necessarie a questa bestia che abbiamo chiamato uomo. Oggi ho appreso che il nostro “albergo” di Amburgo è stato affondato, chissà cosa ne sarà degli amici che erano ancora rimasti a bordo. Spero di aver qualche loro notizia. Bepi mi ha detto che Teo ha ricevuto lettera da casa, beato lui, domani andrò a trovarlo per essere sicuro. In quanto a me, neanche oggi posta, ma forse che anche io avrò la consolazione di ricevere uno scritto dalla mia cara moglie, che mi faccia lenire queste pene, e che mi dia notizie sue e del caro Toni. Povero puppetto, chissà come sarà a quest’ora, sono le 19 ed ha esattamente 3 mesi e 3 giorni. Sarà cresciuto, ed almeno lui consolerà la mia cara Cate. Li penso sempre tutti e due e non avere da tanto tempo loro notizie mi viene da piangere più di una volta. Oggi sono 14 anni che mi sono fidanzato. Bei tempi allora. Essere a casa vicino alla fidanzata, fare le infinite chiacchierate, soli vicino al fuoco, ed ogni tanto darsi un sincero bacio d’amore.
12/11. Oggi è domenica, non si lavora. Ho fatto il bagno e mi sono cambiato. Questa operazione procuro di farla ogni domenica, non per altro, ma per non consumare troppo la biancheria, oggi piove, ed alle 9,30 mi sono ficcato di nuovo a letto. A pranzo il mangiare era discreto, ma una cosa era strana, per frutta ci hanno dato nientemeno che della conserva di pomodoro piccante, che loro chiamino questa roba frutta passi, ma che sia una roba mangiabile, questo proprio no. Il pomeriggio vado a terra. Alla prima fermata del vaporetto trovo Teo, che stava venendo da me. E così vado con lui a bordo del transatlantico “Deutschland” dove è imbarcato. Li passo un due orette e poi assieme si va a terra, entriamo in un bar e li ci mettiamo a bere della birra, perché altro non c’era. Verso le 19 arriva Oscar e con lui passiamo un’altra oretta, poi si ritorna a bordo. A Gotenhafen è arrivato l’Isar, chissà se ci sarà anche Vittorio.
13/11. Oggi fa molto freddo, è stata la giornata più fredda da quando sono via da casa, saranno stati 3-4 gradi sopra zero, ho cercato di lavorare il meno possibile ed ogni tanto scappavo in saletta a scaldarmi, chissà come sarà nei prossimi mesi quando si potrà andare 20-30 sotto zero; con l’attuale vestiario sarà un vero problema. Ho parlato col nostromo ed ha convinto il 2° ufficiale di farmi un buono per altro vestiario, è stato firmato anche dal comandante, vedremo domani cosa mi daranno.
14/11. Oggi, per modo di dire, ho fatto festa, tutto il giorno fuori per comperare il vestiario; fino alle 9 in ufficio per i buoni, dalle 10 alle 13 sono stato a Gotenhafen per veder se trovavo Vittorio, ma niente, la nave era partita il giorno prima, ho visto però due altri neresinotti, il Menighetto Mascarin e il Bruno Bracco, che erano imbarcati sulla nave “Donau” come carbonai, erano, si capisce, neri come il carbone. Sono ritornato a Danzica alle 14, e mi sono messo a girare per i magazzini per trovare qualcosa, ho trovato solo mutande maglie e scarpe. Alle 19 vado al solito bar e trovo Teo e uno di Lussingrande. Teo mi dice che deve partire per Amburgo per fare un corso da fuochista, credo però, e l’ho consigliato, che con quel taglio che ha in pancia lo esonereranno da quel servizio. Alle 21 ritorno a bordo stanco ed affamato.
15/11. Siccome ieri non mi hanno dato due buoni, ritorno nuovamente a terra all’ufficio, con grande dispiacere del nostromo. Li mi danno buoni per un paio di guanti e due paia di calze; sono tornato a comperare le due paia di calze, i guanti ed un paio di scarpe di legno felpate internamente e poi ritorno a bordo. Oggi ho ricevuto una lettera di Toni Belcic e del maestro Scricchia, che mi comunica la sua partenza da Amburgo per casa, infatti mi ha scritto anche una cartolina da Berlino, come conferma che è in viaggio. Il desiderio di tutti è di ritornarsene presto a casa, ma se non è possibile bisogna pazientare. Questa sera è partito anche Teo per Amburgo, e magari lo mandano a casa o in Italia, con quel taglio che ha nella pancia. Oggi sono tre mesi che sono via da casa.
16/11. Alle 5,30 sveglia perché si deve partire da Danzica per andare a fare le prove di timone fuori dal porto e i giri di bussola. Causa forte mare da NE non si possono fare le prove allora ci si ancora in rada a Gotenhafen. Tutto il giorno si lavora in coperta attorno al bigo di forza, fa abbastanza freddo. A Bepi oggi hanno rubato una bottiglia di liquore, buoni compagni che sono questi tedeschi!
17/11. Oggi ho lavorato molto tutto il giorno, ora siamo in attesa del pilota e dei rimorchiatori per ritornare in porto, spero almeno che ci lasceranno cenare in pace. Alle 20,30, come Dio vuole, ci siamo ormeggiati, credo che domani partiremo perché ci hanno messo in una posizione dove le navi stanno poco tempo, meno male che mi sono procurato le scarpe di legno. Tutto il giorno ho lavorato in coperta ed i piedi mi sono rimasti caldi.
18/11. Mattinata abbastanza fredda –2 gradi, si incomincia il lavoro ammainando i bighi. Dalle 7 alle 9 si rassetta la coperta, indi si mollano gli ormeggi e si va in rada. Alle 12 si parte assieme ad altri due piroscafi ed una torpediniera. Il pomeriggio si rassetta ancora, hanno provato le mitragliere, ed io mi sono provato il salvagente. Alle 17 ancora in rada a Pillon, non so quando proseguiremo.
19/11. Oggi domenica penso ci faranno lavorare mezza giornata. Lavaggio della coperta, molto freddo, meno male che ho le scarpe di legno con alte suole, così non mi sono bagnato le calze. Dopo pranzo non si lavora, mi sono buttato nel banchetto, mi sono svegliato dal rumore dell’elica, alle 15 siamo partiti per Liban assieme ad altri due piroscafi e due caccia, da quello che ho potuto vedere. Mentre sto scrivendo, penso che saranno finite le serate con gli amici a Danzica. Teo è partito per Amburgo, Vittorio non lo vedo da due settimane, il maestro è andato a casa, suo fratello pure, Donato non so se è andato a Stettino o se è quassù come noi, Denzio è rimasto con la nave a Menfurwasser, insomma tutti sparpagliati qua e là. Alle 19 viene Bepi e dice che tutti gli ufficiali hanno preparato una valigetta con le cose più importanti, anche lui si mette a fare la sua valigia. Per conto mio mi sistemo il portafoglio meno ingombrante che posso, mi taglio un due sigari, preparo la roba da indossare alla svelta e mi gonfio il salvagente. Più tardi viene un marinaio e dice che ordine di indossare il salvagente, verso le 20 andiamo a dormire vestiti.
20/11. La giornata che ho passato oggi me la ricorderò per tutta la vita. Per scrivere quello che è successo ci vorrebbe uno più in gamba di me nello scrivere.
Alle 1,30 un forte colpo accompagnato da diversi scossoni della nave, mi sveglio improvvisamente, anche perché sono andato a sbattere con la testa sul baglio sopra la mia cuccetta, chiamo Bepi, anche lui si è svegliato e saltiamo giù dal letto. Manca la luce e cerchiamo a tentoni la roba che avevamo preparato poche ore prima. Intanto che ci vestiamo l’elica si ferma e per i corridoi gli altri cominciano a chiamarsi, deve essere successo qualcosa di grave, perché subito dopo viene dato l’ordine di trovarsi tutti in coperta e preparare le lance; dalla scossa della nave ho pensato subito ad una mina magnetica. E così infatti è stato. Tutti ci siamo trovati subito sul ponte lance. Io e Bepi abbiamo deciso di non allontanarci l’uno dall’altro; in quel momento ho pensato alla mia Cate ed al piccolo e mi sono fatto il segno di Croce. Dal primo momento ho capito che non c’era pericolo di affondamento, perciò mi sono tenuto calmo. Gli altri, secondo me, hanno fatto una bruttissima figura in quanto a coraggio e capacità marinaresca. Molti addirittura si sono vestiti coi loro migliori abiti, si sono portati sul ponte tutta la roba più necessaria, in un batter d’occhio il ponte era ingombro di valige che non ci si poteva muovere, come se le due povere lance avrebbero potuto portarci tutti e 140 con tutte quelle valige. Se la disgrazia fosse stata maggiore, allora si che sarebbe venuta fuori una brutta commedia per trovare posto. Ad ogni modo il più brutto era passato, e visto che la nave non faceva nessuno scherzo, il capitano ha deciso di tentar il rimorchio perché le macchine erano rovinate. Non esagero, dalle 2,20 alle 12 sono sempre stato nel castello a dar cavi ai rimorchiatori, e questo, non esagero, almeno 6 volte, perché ogni volta che davo il cavo, si rompeva per gli scossoni che dava il rimorchiatore, anche a causa del mare grosso da SE. Verso le 9, con mare e vento forte siamo venuti a 5 miglia da Liban, dove abbiamo dato fondo. Credo che in quel tempo la nave avrà fatto circa 10 miglia senza macchine, ma fortunatamente verso la direzione giusta. Verso le 11,30 abbiamo dato un ultimo cavo ad un rimorchiatore il quale ci ha trascinato in rada. Appena girate le dighe, per far girare la nave il cavo si è nuovamente rotto, e così abbiamo dovuto stare li all’ancora. Alle 15 abbiamo tentato di entrare in porto coi rimorchiatori, ma non si poteva per la forte corrente. Credo che in quella manovra si sono rotti almeno 6 cavi. Indietro di nuovo all’ancora, e poi finalmente riposo. Quando abbiamo finito, saranno state le 17. Mi sono ritirato in cabina, ho un po’ rassettato, e poi mi sono messo a letto, perché le braccia e la schiena non le sentivo più dalla fatica di tirare grossi cavi tutto il giorno. Alla sera il capitano ci ha regalato un pacchetto di sigarette ed un bicchierino di swaps.
21/11. Dall’una alle quattro di guardia, poi nuovamente a letto fino alle 7,30. Dalle 8 alle 11,30 abbiamo sistemato un po’ le stive che si potevano perché tutti i boccaporti, con l’esplosione sono caduti nelle stive. Tutti i verricelli si sono rotti e quindi non funzionavano. Alle 11,30 con un rimorchiatore si va in porto, in arsenale, dove è già in riparazione il “Worth”, un’altra nave simile alla nostra, che però è più malconcia di noi, perché ha beccato due mine. Tra ormeggio ed altri lavori arrivano le 16, vado a lavarmi e rasarmi un po’. Ho lasciato la barba, vedremo quanto tempo riuscirò a tenerla. Oggi è arrivato a Liban anche Denzio, ma lui chissà dove l’avranno ormeggiato.
22/11. Alle 7 si inizia il lavoro di chiusura delle stive 2 e 3, quelle più colpite dalla mina. Alle 14,30 suona l’allarme aereo. Circa 15 aerei russi hanno sganciato bombe in avamporto, non so quanti danni hanno fatto, ma qualcosa devono aver colpito dato che si levavano alte colonne di fumo. A bordo si vocifera che si starà qui per riparazioni almeno 6 settimane, il che non è poi male, speriamo comunque che ci portino in qualche modo a Danzica. Oggi, non so come, mi è arrivata una cartolina da Mario da Gotenhaven, che mi dice che staranno li per un paio di mesi, e che mi verrà a trovare a Danzica qualche volta.
23/11. Bella giornata di sole ma fresco. Si lavora normalmente senza disturbi, alle 21 a letto.
24/11. Appena alzato sento che le voci di bordo dicono che alle 14 saremo partiti per Danzica, quindi gran lavoro per il rassetto della coperta. Alle 11,30 ci mandano a pranzo ed alle 14,15 improvvisa adunata di tutto l’equipaggio in salone, non so di cosa si tratta, ma appena ho visto il luogo dell’adunata, con la tavola addobbata con la bandiera ho capito che qualcuno aveva l’intenzione di parlare. Infatti dopo un po’ assieme al comandante viene un capitano di marina (4 filetti), che ci stringe la mano, dopo essersi presentati, e subito dopo distribuisce a diversi di bordo la croce di 2ª classe. Tra quelli di coperta sono stati decorati il 2° ufficiale ed il nostromo, non so perché, visto che non si sono per niente distinti. Finita la riunione si continua il lavoro, durante il quale ho conosciuto un marinaio della “Flak”, francese di Manay, che mi ha detto che si trova qui nelle mie stesse identiche condizioni, spero di fare spesso due chiacchiere con lui. Alle 15 si inizia la manovra con una fitta nebbia, adatta per navigare in questi tempi. Alle sedici ci si ancora in rada e come al solito si mettono fuori le lance. Alle 16 si cerca di partire, ma la nave si è traversata e non vuole muoversi, forse per la corrente ma anche per incapacità, secondo me si è arenata. Alle 18 ci mandano a lavarci. Oggi il nostromo, per festeggiare la decorazione ha preso una memorabile sbronza.
25/11. Onomastico di mia moglie e di mia madre, chissà come se la passeranno, e poi mio figlio, a momenti ha 4 mesi. La mattina si lavora in coperta, si fa una cassetta di cemento per tappare un buco. Alle 15 si salpa l’ancora e si parte da Liban. La navigazione si svolge con una pioggia fitta che ti penetra dappertutto, siamo scortati da un posamine e da una torpediniera. Alle 16,30 devo montare di guardia sul ponte fino a mezzanotte. Su fa abbastanza freddo, e poi le gocce d’acqua mi battono direttamente sul viso. Alle 18 vado giù a cenare. Una gran confusione a poppa, perché il nostromo ed altri 3 o 4 bevono a tutta forza dello swaps fatto da loro, non so con che cosa, ma certamente con alcool puro. Alle 19 mi butto sul banchetto in attesa della mezzanotte.
26/11. Quando mi sveglio, ancora la gazzarra dei quattro, vado a vedere, sono in condizioni pietose. Sul ponte fa fresco, ma la pioggia è cessata, alle due tramonta la luna così si naviga in completa oscurità. Alle 4 vado a dormire fino alle 7,30. Dalle 11,30 alle 12,30 transitiamo adagio a causa delle mine. Alle 13,30 si entra nel canale e alle 15 siamo ormeggiati a Danzica. Oggi ci hanno dato la biancheria nuova per il letto, poi ho lavato l’altra roba fino quasi alle 20, domani laverò il resto. Questa sera ho ricevuto 5 cartoline, 2 dal maestro, che va a casa, una di Teo, una di Rico ed una da Mario Rocchi. Anche se libero sono rimasto a bordo, così mi sono ben sistemato la biancheria.
29/11. Questa notte ho pensato tutto il tempo a una eventuale licenza, ma è meglio non farsi illusioni. Sono stato a terra, mi sono annoiato, non ho visto nessuno ed alle 23 sono ritornato a bordo.
30/11. Si continua a lavorare nelle stive. Anche oggi niente posta, ma in compenso mi è venuto a trovare Rico Bracco. E con lui ho passato una bella serata. Abbiamo chiacchierato fino alle 23 ed anche fatto 5 partite a morra, poi lui è rimasto a bordo a dormire.
1/12. Dicembre ha aperto anche lui le porte in quest’anno triste per me e per la mia famiglia. Sono 4 mesi che sono quassù e non ho ancora ricevuto una lettera da casa. Bisogna aver pazienza ed aspettare che tutto questo finisca, intanto il tempo passa, si invecchia e tutti i miei progetti sono stati sotterrati. Rico alle 7 va a terra e noi come al solito si va a lavorare nelle stive. Alle 9 arriva l’ordine che bisogna andare in bacino, quindi gran lavoro fino a mezzogiorno, ora in cui ci siamo ormeggiati. Ricevo due lettere, una di Mario Rocchi ed una di Marino (Pancrazio). Mario dice che ha ricevuto lettera da casa e che tutti stanno bene. Marino mi scrive che ha saputo dagli altri che mia moglie ha avuto mie notizie fino alla fine di settembre, dunque sono contento. Verso le 3,30 si finisce il lavoro e trovo per coperta Bepi Cattina e Mario Rocchi che mi stanno cercando. Mi fa proprio piacere che mi vengono a trovare e siamo stati assieme fino alle 20. Si è parlato di tutto un poco, ma soprattutto di casa, Mario ha ricevuto una lettera del 29 ottobre, proprio io non ho ricevuto ancora niente. Alle 20 vado al solito cine della scuola, e poi alle 23 a bordo.
2/12. Poco lavoro alla stiva 4. Alle 10 danno l’acqua al bacino, dopo la visita di controllo dei periti e si attendono i rimorchiatori per uscire dal bacino. Ho ricevuto una lettera da Teo, fa freddo, così passo la serata in cabina a scrivere lettere.
3/12. Domenica riposo. Ho lavato tutta la roba sporca, che era abbondante. Sono andato dal comandante per farmi vidimare la dichiarazione di perdita del corredo a causa della mina, ho approfittato per chiedergli la licenza, ma mi ha detto che le licenze per Fiume sono chiuse. Ho scritto una lettera al viceconsole italiano a Brema, un certo Gerolimich di Lussino, per vedere se lui può fare qualcosa per la licenza. Questa sera mi è venuto a trovare Denzio da Gotenhafen, ma solo per mezz’ora.
4/12. Mi sono svegliato che la coperta era bianca dalla neve. Oggi non ho lavorato, sono stato tutto il giorno in giro per cercare di comperare del vestiario. Il pomeriggio mi sono chiuso in un cinematografo, poi mi sono trovato con Denzio, che è venuto da Gotenhafen.
5/12. Oggi si sbarcano i materassi di paglia. Alle 10 il marconista mi avverte che ci mandano ad Amburgo in licenza. Nel pomeriggio sono stato a terra col Bepi per vedere di comperare qualcosa, ma non abbiamo trovato niente. Ho ricevuto una lettera da Toni Belcic, che mi dice che non ha proprio cosa vestire, poveretto. Dopo Amburgo gli manderò della roba con la posta. Scrivo delle lettere agli amici per avvertirli che mi mandano in Amburgo, e vedrò se da li riesco ad avere una licenza per casa.
10/12. Sono nuovamente a bordo con la morte nel cuore. I giorni passati ad Amburgo sono stati una vera passione, ho cercato in tutti i modi di trovare il sistema di farmi mandare in licenza, ma la sola cosa che ho ottenuto è che non posso andare a casa. Tanto per la cronaca Mario Zoroni ha fatto il bagno (naufragio) a largo di Helam, anche lui e va in Amburgo. L’ho visto ieri sera assieme a Giusto Bracco, che ha finito una villeggiatura nelle prigioni di Altona, assieme ad un altro di Neresine. Giusto va a finire imbarcato a Pillon e l’altro è rimasto a Gotenhafen. Si stava meglio in prigione, forse sarebbe stato meglio se restava là. Il giorno 8 ho spedito un pacco di roba al Toni Belcic, forse lo riceverà, poveretto, e sarà contento.
11/12. Anche oggi niente da fare per la licenza. Sono stato al consolato italiano e mi hanno rilasciato il passaporto, chissà se con quello mi possono mandare in licenza? Alla sera ho visto due marinai della nave italiana “Africana”, e mi hanno detto che il comandante, Cap. Costa cerca un ufficiale per la sua nave, gli scriverò senz’altro domani, Dicono che il Nordenhaven è andato a fondo, cosa sarà di Denzio, anche lui non avrà certamente passato un bel momento; è un bravo ragazzo e spero che se la sia cavata bene.
12/12. Stamattina sono stato al K.L.D. con il passaporto, ma mi hanno detto che ogni decisione la prende il capitano, lui adesso è via, quando ritorna proverò a parlargli un’altra volta, ma questi gnocchi hanno la testa dura, e quando si mettono in testa una cosa …. Sono rimasto a terra, ho comperato un paio di scarpe e poi sono andato al cine, alle 18 sono rientrato a bordo ed ho trovato due lettere, una di Marino ed una di Oscar. Ho disfatto il pacco, e penso che se non riesco andare in licenza ora, non potrò andarci più fino alla fine di questa maledetta guerra. Sono nuovamente senza tabacco.
13/12. Questa mattina sono andato a lavorare, verso le 10 sono andato dal capitano, ma quello mi ha mandato via … addio licenza! Il pomeriggio poco lavoro, e poi hanno distribuito il tabacco. Ho ricevuto una lettera da Teo, e poi inaspettato è venuto a trovarmi Denzio, il naufrago del Nordenhaven, che è stato silurato a largo di Liban, tre si sono salvati perché hanno perso il vapore e sono rimasti a terra, chissà cosa sarà degli altri. Vittorio non si fa sentire, Denzio l’ho baciato proprio di cuore, mi ha raccontato brevemente la sua storia, poi siamo andati a terra, chissà se almeno lui lo manderanno a casa. Alle 23 sono ritornato a bordo. Oggi ho lavato i pantaloni del vestito, erano proprio sporchi schifosi. Vittorio mi ha detto prima di partire: se vedi la barca e non mi vedi, vuol dire che mi sono annegato, ma il guaio è che non vedo ne la barca ne lui; mi hanno detto che l’Isar fa i viaggi per la Norvegia.
14/12. Nessuna novità. Ricevo una lettera di Belcic’ e di Cattina che mi dice che i partigiani hanno fatto una visita dalle nostre parti, così penso che quelli che ci hanno mandato quassù non se la passeranno tanto liscia. Verso le 15 sono venuti a trovarmi Denzio, Mario ed Oscar, e con loro sono andato a terra, e poi alle 23, come al solito a bordo.
15/12. Oggi poco lavoro. Nel pomeriggio ho pelato un po’ di patate e poi pulizia al signor maiale (bello!). Alla sera sono rimasto a bordo perché è brutto tempo, oggi sono 4 mesi che ci hanno portato via. Ho passato il tempo a scrivere agli amici, ho scritto anche a casa, ma sarà inutile, tanto non arriverà.
16/12. Oggi lavo la cabina, e nel pomeriggio vado a dormire, poi vengo svegliato da Oscar e Bepi, poi vado a terra con loro e troviamo Denzio e quello di Basca, andiamo nel solito locale, poi ritorniamo a bordo, Denzio per questa volta è nostro ospite.
17/12. Si dorme fino a mezzogiorno, ah dimenticavo, ieri c’è stato allarme aereo dalle 5.30 alle 6.30, aerei hanno gettato delle mine fuori dal porto. Al pomeriggio vado fuori come al solito, con Denzio nella solita birreria, dove incontriamo altri croati e Dumicich di Lussingrande. Alle 22 rientro a bordo.
18/12. Poco lavoro, fa abbastanza freddo. Il capitano ha distribuito dei pacchi dono per quelli che vanno in licenza ed a noi ha augurato Buon Natale e che cercherà di farci andare in licenza. Ho ricevuto posta dal Toni, e mi dice che non ha ancora ricevuto il pacco che gli ho mandato. Alle 16 ritorna il telegrafista da terra e dice che da Amburgo parte una spedizione di gente che va in licenza in Italia ed in Croazia, mi ha detto che forse anche noi andremo con quel treno.
19/12. Sempre poco lavoro e freddo, passa il tempo in coperta ed in cabina. Ho scritto una lettera a casa da consegnare a Denzio che parte per Amburgo. Alle 20,40 allarme aereo, mi sono rifugiato in un bunker vicino alla nave, mi hanno detto che c’è stato un forte bombardamento a Gotenhaven e Hela, vado a letto con la speranza che la notte passi in pace.
20/12. La notte l’ho passata molto bene, alle 11,30 ho ricevuto lettera da Toni Belcic e Mario. Oggi non ho lavorato niente, la sera ho cucito le calze ed i guanti.
21/12. Sempre più freddo, la coperta e tutta gelata. Oggi non ho voglia di andare a terra, anche perché i bombardamenti si fanno sempre più frequenti.
22/12. Questa notte ho fatto un bel sogno, ho sognato un mio amico gobbo che mi faceva la radioscopia perché mi ero bagnato e mi ero lamentato che mi facevano male le costole. Si vede che mi ha portato fortuna perché ho ricevuto 4 lettere, una da casa, una dal capitano dell’Africana, una dal Belcic ed infine l’ultima dal Toni Ambrosic. Caro mio diario, finalmente posso dire che scrivo queste righe con gioia, perché dopo 129 giorni finalmente ho ricevuto le prime notizie di mia moglie e del mio Tonino. Ho letto e riletto quelle poche righe che mi hanno fatto tantissimo bene, specialmente quelle che parlano di mio figlio. È grande, grasso, ride, e già conosce la mamma. Mia moglie mi dice che non ha mai visto una simile creatura, e si che ne ha visti di bimbi. Si capisce, è suo figlio, nostro figlio, l’unica consolazione che ha, poveretta, dopo che mi hanno portato via. Almeno con lui passerà un po’ meglio il tempo, non sarà più così tanto sola, come lo era quando mi imbarcavo. La seconda lettera del capitano Costa mi dice che è pronto ad imbarcarmi come 2°, ma che devo sbrigarmi da solo a levarmi dalla K.M.D. Si capisce che farò in tutte le maniere, che tenterò. Se non mi mandano in licenza, scrivo subito a Berlino, poi vedremo. La terza lettera del Belcic, che mi dice che deve andare a Pillon con la sua maona, anche lui poveretto incomincerà a navigare, speriamo non troppo. Nella 4ª il Toni Ambrosic mi dice che sta bene e mi augura le Buone Feste, insomma, oggi in complesso, è stata una giornata felice per me e spero che in avanti ne abbia delle altre così. Di lavoro poco, ho scritto agli amici, nella lettera di Denzio ho messo anche un biglietto per casa.
23/12. La notte l’ho passata bene, senza alcun disturbo di aerei. Oggi sabato, mezza giornata di lavoro, e poi tre giorni e mezzo di festa per il Santo Natale. Anche stamattina ho dovuto andare alla stazione con altri due, a prendere 3 casse di liquori per bordo. Nel pomeriggio speravo di aver posta, ma niente, solamente è arrivata una lettera di un certo Busina per Cettina, che è a Hela. È arrivata per sbaglio, ma mi sono divertito un poco a leggendola. Oggi alle 17 ci hanno dato mezza bottiglia di Swaps e 4 sigari a testa. Alla sera non vado a terra perché fa freddo.
24/12. È domenica, alle 8 vado a terra per andare alla K.M.D. per la licenza, li mi dicono di ritornare dopo le feste, il 28, così si perde il turno per imbarcare sull’Africana, che parte il 29, si vede proprio che non mi vogliono lasciare, per fortuna a bordo trovo 4 lettere di amici, che mi fanno passare la bile che ho in corpo. Alla sera tutto l’equipaggio, quello cioè che non era in licenza, circa una ventina di uomini, è invitato a cena in salone. Si passa una serata melanconica, perché questi tedeschi non sanno organizzare una festicciola allegra senza la musica, e siccome questa non c’era, eravamo tutti muti. Più tardi distribuiscono i doni natalizi a tutti. A me è toccato un pacchetto ed un libro. Nel pacchetto c’era un sapone, un pettine e della carta da scrivere. Verso le 23 si va a dormire.
25/12. Natale, festa che dovrebbe riunire tutte le famiglie cristiane del mondo; a mezzogiorno tutti attorno al desco famigliare, in questo anno molto tragico per l’umanità, che mi ha trovato scaraventato a tante centinaia di chilometri lontano dalla mia piccola famiglia. Cosa penserà di me, e dove sono in questa giornata, mia moglie; guarderà ogni tanto il nostro piccolo nella sua culla, e chissà quante volte avrà pianto. In altri tempi l’essere così lontano mi avrebbe abbattuto molto, però, considerando come sono venuto quassù e le condizioni in cui mi trovo è molto più tremendo. Per incominciare questa mattina sono andato e terra a cercare una chiesa cattolica, ed almeno li, assistendo alla S. Messa, mi sono un po’ rasserenato. Fuori dalla chiesa ho conosciuto due prigionieri italiani e con loro ho passato il tempo fino a mezzogiorno. Nel pomeriggio sono stato invitato nel campo di concentramento Menfarvasser. Ho portato quello che ho potuto, un po’ di burro, un pezzo di pane ed un pezzo di dolce, con 15 sigarette. La serata l’ho passata benissimo in compagnia di 8 italiani del settentrione, che mi hanno intrattenuto cordialmente fino alle 10 di sera. Tra l’altro mi hanno offerto del risotto alla milanese con sardine portoghesi, che ho gradito molto. Un libro ci vorrebbe e non un misero diario, per descrivere tutta l’odissea che mi hanno raccontato quei poveretti. In grazia a quale forza hanno resistito a tutte le sofferenze che hanno patito, loro stessi non lo sanno, sanno però che solamente il Signore li ha aiutati, e non gli uomini. Alle 23 vado a letto, pensando a casa ed a quello che mi hanno raccontato gli ex IMI.
26/12. Anche oggi festa. S’è trattato di far passare in qualche modo le 24 ore. Domani andrò dal medico, perché sono tre notti che faccio fatica a dormire per un insopportabile prurito che ho su tutto il corpo.
27/12. Tutto il giorno sono stato dal medico per niente, troppa era la gente che voleva essere visitata. Ho ricevuto una lettera da Marino (Pancrazio), gli ho risposto subito.
28/12. Anche oggi dal medico, ma mi ha trovato poca cosa, vecchi sintomi, dice che il prurito mi passerà presto. Tanto per non tornare a bordo nelle ore lavorative, perché per questa gente non vale la pena di lavorare, mi sono ficcato in un cinematografo, ed il tempo mi è passato abbastanza presto. Alla sera mi sono incontrato con Boso di Basca, e più tardi con Rico e Oscar, con loro ho passato fino alle 20 a bordo. Ho ricevuto due lettere, una da Belcic ed una di Denzio.
29/12. Oggi niente a terra perché sono di guardia, passo il tempo a scrivere agli amici, perché sono un po’ in ritardo con la corrispondenza.
30/12. Sabato, poco lavoro; al mattino vado a terra a portare una cassa e prendere la posta. Denzio mi ha scritto una lettera dicendomi che sarebbe partito il 29, dunque è già in viaggio, beato lui, gli auguro che gli vada bene, almeno mi porterà notizie della mia Cate. Verso le 17 ha incominciato a nevicare forte, sono stato a terra con il freddo e vento nella speranza di trovare qualcuno. Al solito bar nessuna anima viva nostra, ero solo come un cane, povera nostra compagnia, almeno si passava qualche serata un po’ allegra, ora più nessuno, Gli altri si riuniscono a Gotenhaven, ma io non ho voglia di fare due ore di treno per stare in compagnia un’ora soltanto. Mi sono ficcato nel solito cine, e poi alle 23 a bordo.
31/12. Poca gioia mi ha portato questa fine di anno, sono rimasto a bordo tutto il giorno, la più parte a letto, pensando alla mia Cate a al mio piccolo. Non ho voluto andare a Gotenhaven a festeggiare il San Silvestro assieme agli altri, perché una tristezza, alimentata dal cader della nave, si è impadronita di me e non posso in nessun modo allontanarla. Ho scritto questa sera 6 lettere ad amici ed ho fumato la razione di sigarette di 5 giorni, ed una mezza bottiglia di Sweps mi ha fatto compagnia. Questa è la fine del 1944 per un povero deportato in Germania. A poche ore dalla nascita del nuovo anno, rivolgo una preghiera al buon Dio che mi faccia ritornare presto a casa, perché so che mia moglie ed il mio tesoro di Toni mi aspettano con tanta ansietà. Il questo periodo dacché sono in Germania ho ricevuto 56 lettere dagli amici che sono stati come me spediti quassù, ma ho avuto la gioia di ricevere una sola lettera dalla mia cara moglie, e questo il 22/12, scritta il 28/11. Speriamo che nel 1945 possa avere almeno, se non altro, più lettere da casa.
1/1/1945. Anche oggi passa con grande tristezza, chissà quanto ci toccherà ancora stare qui, quanto ci toccherà stare lontani da casa e quanto durerà ancora questa prigionia. Sono andato a terra per andare al cine, ma neanche questo diversivo è andato a buon fine, perché c’era troppa gente ed era tutto occupato, ho bevuto un paio di birre e poi sono ritornato a bordo. Così è cominciato il nuovo anno.
2/1. Giornata normale, si incomincia a lavorare. Sono stato a terra a prelevare la posta, tre lettere per me, una di Toni, dove mi scrive che ha ricevuto il pacco, una da Teo e la terza da Denzio da Berlino, lui è già in viaggio, e a quest’ora, se tutto gli è andato bene dovrebbe essere già a Fiume. Sono contento che dopo tanto uno di noi se ne va a casa. Denzio, da quello che so sarebbe il sesto che va a casa, dopo Giorgio Sigovini, i tre che sono andati a Venezia sullo Stamin e Dumic, poi c’è anche il maestro Smecchia di Lussingrande. Se è così, e se ogni tanto qualcuno se ne va, verrà anche il mio turno. Bepi è più fortunato di me perché ha ricevuto una lettera da casa. Li pure ho ricevuto notizie di mia moglie, che è a Verin col piccolo, e secondo a quello che scrive la sig.ra Nives, cresce e si fa sempre più bello.
3/1. Anche oggi niente di nuovo, ho ricevuto un cartolina da Denzio da Vienna. Lavoro quasi niente, vado a terra al cine vicino alla nave, poi alle 23 a bordo.
4/1. Anche oggi niente di nuovo, gli altri sono rientrati dalla licenza, ma a me non vogliono mandare, mi tengono prigioniero. Da diversi giorni hanno tagliato il mangiare ed il tabacco, due sigarette al giorno.
5/1. Anche oggi come al solito, ho ricevuto lettera da Belcic, da Cattina ed una da Mario. Belcic è ora a Pillon assieme a Frane Bobaric.
6/1. Tre Re, da noi è la festa dei bambini, qui niente. Niente lavoro, al pomeriggio vado a letto, alle 15 mi sveglia Bepi con Cattina, Mario, Rico che sono venuti a trovarmi. Ho avuto piacere della loro visita e più tardi, dopo aver mangiato e parlato di tutto un po’, mi hanno trascinato, nientemeno che a Gotenhaven. Si parte alle 18,20. Alle 18,45 a Gotenhaven, dove ci si ficca in un bar italiano, e li troviamo altri amici, due di Neresine ed altri di Lussingrande. Non avevo nessuna voglia di andare tanto lontano da Danzica, ma per gli amici cosa si deve fare! Alle 20 la RT annuncia l’avvicinarsi di aerei, volevo ripartire subito per Danzica, ma mi hanno sconsigliato. Alle 20,30 suonano le sirene, e dai a correre verso la campagna con l’oscurità e la nebbia fitta che hanno lasciato i fumogeni. Dopo 10 minuti di corsa e dopo aver perso la metà della compagnia, raggiungiamo una casa isolata e li ci si ripara in cantina. Pochi colpi di artiglieria e poche bombe e questo è tutto. Alle 21,30 fine dell’allarme, però io e Bepi abbiamo perso il vaporetto per ritornare a bordo. Partiamo alle 22 da Gotenhaven per Danzica. Alle 23,30 col treno andiamo a Menfanvasser e da li, con la solita barca di Caronte attraversiamo la Vistola, e poi con una buona mezz’ora di cammino raggiungiamo la nave, che sono le 1 del mattino.
7/1. Sono stato a letto fino a mezzogiorno, ho scritto a tutti gli amici, a casa ed alla mamma a Trieste. Ho cenato con quel poco che ci danno, poi ho letto per l’ennesima volta la lettera della mia Cate, e sono andato a dormire.
8/1. Oggi si sono sguarnite le lance di salvataggio, (corde, paranchi, ecc.) e si è sistemata la roba nel magazzino, buon segno, vuol dire che la nave resterà ferma per parecchio tempo. Ho ricevuto una lettera da Toni Ambrosic ed una da Teo, finalmente, dopo tre mesi ho avuto notizie di Vittorio, lui si trova in Danimarca a Alus, perché fa i viaggi con la Norvegia e si trova spesso con Menigheto Mascarin e Bruno Bracco, sono contento di aver sue notizie, gli ho scritto subito. Nel pomeriggio ho lavorato in salone per una festa che faranno domani, fra equipaggio ed invitati, vedremo cosa salterà fuori. La sera, per distrarmi sono stato a terra a bere qualche birra, ho visto uno di Basca che è partito in serata per Amburgo, anche lui tenterà di andare a casa. Alle 23, come al solito, a bordo.
9/1. Oggi poco lavoro per la festa di questa sera. Non volevo partecipare, ma sono stato obbligato con la minaccia di non avere più il permesso di andare a terra. A malavoglia ho partecipato alla cena, che non è stata un gran che: un po’ di lepre con patate ed insalata, poi vino ed un po’ di liquori. Ho dovuto sopportarli fino alle due dopo mezzanotte, e di una cosa mi sono meravigliato, di come si sono ubriacati con quel poco di bevande che hanno avuto.
10/1. Tutto il giorno ho lavorato per rassettare e mettere a posto il salone messo a soqquadro durante la festa della sera precedente. Nel pomeriggio ho avuto il piacere di ricevere una lettera da Vittorio, mi scrive dalla Danimarca, dove si trova con la nave. Si lagna dei viaggi brutti e del freddo, poveretto, anche lui deve passare le sue, ma dice che forse verrà presto a Danzica, così potremo passare insieme qualche serata. Ho tanto desiderio di vederlo!! Mi ha scritto anche Toni Ambrosic. Ricevo sempre un po’ di posta.
11/1. Oggi pitturo la mia cabina. Ho ricevuto posta da Toni e Frane Bobaric.
12/1. Continuo a pitturare la cabina. Ho avuto posta da Belcic a cui devo rispondere subito. Oggi ho scritto 8 lettere.
13/1. Oggi ho finito di pitturare la cabina, niente posta. Nel pomeriggio ho fatto una bella dormitina fino alle 17, e poi lavaggio personale e della biancheria. Verso le 21 mentre stavo scrivendo alla mia Cate, suona l’allarme, due ore in rifugio, e poi a continuare a scrivere. Speriamo che stanotte gli uccelli (aerei) ci lascino dormire.
14/1. Ho dormito da mezzanotte fino alle 11,30 svegliandomi un paio di volte. Alle 11,30 mi ha svegliato un preallarme, altrimenti non mi sarei svegliato nemmeno per il pranzo, tanto per quello che ci danno. Alle 12,10 fine allarme e poi di nuovo a letto in attesa che ci distribuiscano la razione di sigarette per la settimana. Si comincia a stare male a bordo perché la panatica è molto scarsa. Ieri Bepi è venuto con la notizia che Marino, Spagnolo, Gino ed un altro di Neresine sono partiti da Amburgo per andare in licenza, altri 4 di meno quassù, e noi sempre in attesa. Io dalla rabbia non voglio nemmeno scendere a terra. Bepi è andato a Gotenhaven a divertirsi con gli altri, beato lui che ne ha voglia. Domani il 1° ufficiale andrà a vedere alla K.M.D. se possiamo andare ad Amburgo, speriamo che questa volta ci riesca.
15/1. Oggi sono 5 mesi che sono via da casa, nel pomeriggio il 1° ufficiale mi ha detto che non ha potuto fare niente e che parlerà col comandante. Come al solito, all’ora della posta ho avuto due lettere, una di Cattina e l’altra di Marino, quest’ultimo, dopo aver perso tutto per i bombardamenti adesso è in viaggio verso casa assieme a triestini, istriani ed uno di Cherso. Questa sera sono andato a trovare due croati che sono imbarcati sul “Tanga”, anche loro aspettano di andare in licenza, e poi ritorno a bordo.
16/1. Ho pitturato la cabina dei mozzi fino alle 14. Questa sera andrò a terra a trovare gli amici, (questi sono veri croati perché non delle nostre parti). Trovo solo il vecchio di Basca e con lui vado al cine, alle 23 a bordo.
17/1. Questa notte non ho dormito niente perché il calorifero si è guastato, e mi sono ghiacciato. Alle 8 non sono andato a lavorare, dicendo che non potevo, così ho dormito fino a mezzogiorno. Ho avuto una lettera di Teo. Ho avuto la risposta dalla K.M.D. che tra giorni mi daranno la licenza, Vedremo.
18/1. Anche oggi niente novità, la solita pitturazione. All’ora della posta ho ricevuto due lettere, una di Belcic che mi dice che da Pillon va via, e l’altra di Denzio, da Zagabria, scritta l’1/1. Quest’ultimo mi avverte che prosegue il viaggio, e mi esorta di venire presto in licenza, che debbo fare, se non mi lasciano partire. Mi sono messo a dormire, e non ho nemmeno sentito quando Bepi è venuto in cabina per cambiarsi per scendere a terra.
19/1. Bepi mi ha detto che altri due nostri amici sono partiti, due di Lussingrande. Uno, Capuzzo, naufrago della “Mimi Horn” parte questa sera. Marino mi ha scritto una cartolina da Monaco di Baviera, è in viaggio per casa.
20/1 Ho avuto tre lettere, di Donato, Teo e Frane. Beati i primi che sono lontani da qui, e specialmente Teo che è il più distante di tutti, Come si vocifera, una brutta sorpresa ci attende fra giorni.
21/1. Questa mattina io e Bepi, ottenuta una lettera dal comando volevamo andare alla K.M.D. ma a Manfarvasser non camminavano ne treni, ne tram. Cosicché non abbiamo fatto niente. Arrivati a bordo ci aspetta una brutta sorpresa. Ordine superiore, tutto l’equipaggio è consegnato, nessuno può scendere a terra.
22/1. Brutte notizie. Tutti a bordo hanno il muso lungo e sanno anche perché. Cosa sarà di noi fra giorni se la marea di uomini e “cani” non si ferma. Ho avuto lettera da Teo, ma non ho nessuna voglia di rispondergli perché ho altro per la testa. Bepi spensierato suona l’armonica, e dice che quando sarà a casa saprà almeno suonare, se non altro. Beato lui che è giovane e che ha queste voglie. Io penso tanto alla mia cara Cate e al piccolo Toni.
23/1. Niente di nuovo, si lavora con poca voglia in coperta e per tutta la nave, come se sulla testa di ognuno si fosse conficcato un brutto chiodo. Parlare con loro è meglio non farlo, perché sono troppo nervosi e ti rispondono male, così tra un paio di pennellate e due giri in coperta sono arrivate le 17, e via a cenare, poi mi sono ficcato in cabina senza più mettere la testa fuori. Questa notte hanno fatto nafta.
24/1. Anche oggi più nervosismo di ieri. Verso le 9 passa trascinato da 3 rimorchiatori un grosso piroscafo. Tra il mio stupore e quello di Bepi, vediamo Mario Zoroni che ci saluta, anche lui, povero diavolo, dove è andato a finire, invece di andare a casa. Sono senza fumare da ieri a mezzogiorno, e non so come fare senza avere almeno quel sollievo. Posta non arriva, quindi è meglio ficcarsi a letto ed aspettare il nuovo giorno.
25/1. Si lavora come al solito, posta niente, ora nemmeno gli amici scrivono. Io e Bepi siamo soli ed aspettiamo che l’ambiente si schiarisca. Intanto per questa sera siamo invitati in salone per un “Cameradschaftabend”, non sarà niente che un po’ di birra e che bisognerà pagarla, ma intanto bisognerà cambiarsi, e questo è una seccatura per me. Hanno organizzato una specie di bar a bordo. Per poter dare un po’ di svago al personale obbligato a stare a bordo. Come la prima sera, il capitano ha spiegato il motivo, chiaro dopo tutto, dovuto all’ordine avuto dalle autorità di trattenere l’equipaggio in modo assoluto a bordo, ed ha anche illustrato la situazione del fronte orientale, aiutandosi con uno schizzo su una lavagna. Poi si è giocato un po’ alle carte e bevuto qualche birra, pagandosela naturalmente. Alle 21 mi sono ritirato in cabina.
26/1. Oggi è stata una giornata campale. Al mattino ho iniziato alle 8 la pitturazione dei salvagente, ma verso le 9 ho dovuto interrompere per rassettare la nave per la partenza. Un lavoro da matti tutto il santo giorno, fino alla mezzanotte. Imbarcare salvagente, zatterini, paglia, preparare giacigli di paglia, perché la mattina dopo si deve partire per Pillon per imbarcare profughi. A mezzanotte finisce il lavoro con l’ordine di alzarsi alle 4, per continuarlo. Sicuramente questo 26 me lo ricorderò, sembra che il 26 sia per me un giorno di punta: Il 26 sono nato, un altro 26 mi sono sposato ed in tanti 26 ho avuto delle giornate forti. Oggi ho avuto due lettere, una di Belcic, che si trova ancora a Pillon, ed un’altra di Mario, anche loro mi scrivono che devono lavorare.
27/1. Intanto per cominciare, questa notte abbiamo avuto due allarmi, con tiri, razzi e bombe. Il primo da mezzanotte alle 2 ed il secondo dalle 4,30 alle 6,20. Alle 7 sveglia, non ho dormito in totale neanche un minuto. Abbiamo mollato gli ormeggi alle 7,30 sotto una forte nevicata e a causa del bombardamento di questa notte non siamo partiti, ma ci hanno messo in banchina Neufarvasser, vicino alla stazione. Tutto il giorno ha nevicato, e continua ancora adesso, e si è lavorato in coperta con un freddo molto forte, -12°C, meglio così, perché almeno ora la nave è quasi rassettata. Prima di andare a dormire devo cucire i guanti, perché altrimenti domani saranno guai.
28/1. Alle 5 partenza per andare ancora in rada. Tutto il giorno in attesa della partenza, ma ancora nessun ordine è arrivato. Tutto il giorno ho lavorato in coperta a spalare la neve, il freddo è forte, ed ogni tanto dovevo andare in mensa a riscaldarmi.
29/1. La notte è passata tranquilla in rada. Alle 8 come al solito a spazzare la neve ed il ghiaccio per tutto il santo giorno. Alle 10, dalla rada di Danzica ci siamo portati vicino a Hela, da dove siamo partiti alle 16. Questa mattina in rada il mare era ghiacciato per diversi lunghi tratti. Ha nevicato durante il giorno diverse volte, e noi a continuare a spalare la neve. Per fortuna che ieri mi sono costruito due scarpe con una vecchia coperta; con quelle, con le calze dentro le scarpe, me la sono passata discretamente. Alle 20,45 si da fondo in rada a Pillon. Notte calma.
30/1. Alle 10 si va in avamporto, che è tutto ghiacciato. Verso le 15 si entra in porto con l’aiuto di due rompighiaccio. Manovra lunghissima e freddo intenso. Verso le 16 ormeggiamo e si inizia l’imbarco dei profughi che già attendono da chissà quante ore e giorni, noi si deve lavorare a riprese fino all’una del 31. Chissà quanto ha patito questa gente.
31/1. Alle 2 sono andato a dormire dopo essermi un po’ lavato e rassettato a quell’ora, perché ero veramente sporco. Alle 7,30 ci vengono a svegliare come al solito, e si continua a lavorare. Alle 10 ci si stacca dal molo per andare all’ancora. Durante la manovra vedo il rimorchiatore dove è imbarcato Frane Bobaric, lo chiamo, e finalmente, dopo quasi 6 mesi lo rivedo, ci siamo scambiati quattro parole, quelle che si poteva. Mi ha detto che Belcic è pure li con la sua maona e che è venuto a cercarmi il mattino, ma non l’ho visto, si vede che non l’hanno fatto passare, poi mi ha detto: “In che loghi semo venudi Giovanni mio”, io gli ho risposto solamente queste parole: ”Altro che, e speremo de vederse a Lose se ne va ben”, poi via. Alle 13 si parte da Pillon. Alle 17,30 si transita per Hela. Alle 19 ci si ancora a Gotenhafen. Non so quanti profughi abbiamo avuto a bordo, ma credo più di 5.000. Due creature sono morte durante il viaggio, ed una è nata questa sera. Povera gente, quanto avrà patito fin’ora e quanto dovrà patire fino alla fine. Perché hanno voluto fare questa guerra e che non sapessero che essa porta anche di queste belle cose? E vogliono ancora andare avanti, ma per quanto? E come? Ma alla fine si vedrà chi aveva ragione.
1/2. Tutti i passeggeri sono sbarcati, noi, come al solito abbiamo lavorato fino alle 21, ed in sovrappiù abbiamo messo a posto l’ancora di dritta, persa in rada a Pillon. Lavoro pesante, e reso ancora più pesante dalla cattiva direzione di un 2° ufficiale. Circolano voci allarmanti, forse che la Madonna della Candelora mi porterà fortuna. Niente posta, a scrivere a casa, neanche pensarci, perché ormai qui non va più niente.
2/2. Alle 7 si stacca per andare a fare le prove di bussola ed apparato antimine. Tutto il giorno si gira nel porto di Gdinia, e noi a fare pulizia. Alle 19, dopo lunga manovra, si va in banchina per imbarcare provviste, carbone e nafta. Alle 22 a dormire.
3/2. Alle 7 ci si stacca nuovamente e si gira per continuare le prove di ieri. Anche oggi molto lavoro col paleggio del carbone, pulizia e manovra alle lance. Alle 17 finito il lavoro mi faccio il bagno, alle 19 da Gdinia si parte per Danzica, e chissà quanto lavoro ci aspetta questa notte. In questi tre giorni a Gotenhaven (Gdinia) abbiamo lavorato come cani su lavori, così mal diretti, che abbiamo messo tre volte il tempo necessario per farli. Tutto l’equipaggio è terribilmente demoralizzato e non vede l’ora che questo tormento finisca. Si salpa e si va ad ancorare nella rada di Danzica. Notte calma, ed ho lavato la biancheria.
4/2. Alle 5 sveglia per la solita manovra delle lance, poi si va ad attraccare a fianco di un magazzino dove imbarchiamo, con l’aiuto di alcuni prigionieri, coperte, materassi di paglia ed altre merci del genere. Le voci dicono che faremo trasporto di feriti. Presto hanno trasformato la nave in ospedale, ma intanto gli altri (russi) avanzano e sono a due ore dalla capitale. Nel pomeriggio si imbarca truppa e si pernotta sul posto. Io oggi non ho lavorato perché mi faceva male un piede.
5/2. Alle 7 si parte, in navigazione è un continuo allarme, ogni tanto un aereo si faceva vedere e noi a tirargli addosso. Alle 12,30 si arriva vicino alla rada di Pillon quando all’improvviso sono apparsi, nientemeno che 80 bombardieri russi, tutti a bordo hanno pensato che si sarebbero scaricati su di noi, ma niente, invece hanno scaricato le bombe sulla città, ma a noi niente. Una densa nube di fumo ha coperto la città, e poi noi siamo entrati. Durante la manovra ho visto Frane, ed abbiamo parlato un poco, Belcic, anche lui è partito. Intanto noi abbiamo sbarcato i militari ed imbarcato i feriti.
6/2. Fino alle 13 si sono imbarcati i feriti, quanti? Chissà, comunque tutte le stive ed i corridoi sono pieni ed anche dei borghesi. Alle 13 si parte e verso le 18 si arriva vicino a Hela. Alla notte all’ancora con la nebbia. Questa notte vado a dormire vestito.
7/2. Alle 8 si va vicino a Gdinia e verso le 16 si parte scortati ed accompagnati da molte piccole navi. Navigazione lenta ed ogni tanto manovra. Anche questa notte vado a dormire vestito.
8/2. Ho passato la notte calma. Ieri non ho lavorato a causa di diarrea e forti dolori di pancia. Un dottore mi ha dato del carbone da prendere e non mangiare per tre giorni. Da ieri mattina ho mangiato solo 4 fette di pane. Ogni tanto si incontrano dei grossi blocchi di ghiaccio, che ci ostacolano e ci fanno deviare la marcia. Oggi il mio Toni ha 6 mesi, e tanto per fare qualcosa che me lo ricordi, ho letto per l’ennesima volta l’unica lettera che ho ricevuto dalla mia Cate. Mi ha fatto un po’ di bene leggere quelle 4 righe. Verso le 14 passiamo vicino alla maona dove è imbarcato Belcic, la riconosco per il nome. Lui invece ha la possibilità di salutarmi col Morse, e lo ringrazio di cuore, si vede che sta meglio di me in quella piccola maona, starà come un papa, beato lui. La notte, dalle 20 alle 24, continuo passaggio di aerei, lontano dalla costa, verso sud si vedevano gli scoppi dell’antiaerea, erano tanto bassi che ne ho visti tre nonostante il buio.
9/2. Si da fondo l’ancora verso l’una e sempre fermi, credo che non sanno nemmeno dove andare con tutta questa povera gente a bordo, dicono a Copenhagen e non più a Flusburg, ma vedremo, basta che il Signore ci faccia arrivare. Tutto il giorno all’ancora. Perché????
10/2. Delle voci dicono che Frane ha dovuto sloggiare, basta che gli sia andata bene. Sempre all’ancora fino alle 19,30 ora in cui si prosegue. Oggi ho trovato una macchinetta accendisigari.
11/2. Alle 1,30 si da fondo all’ancora, dove? Credo che saremo vicini alla Danimarca. Notte calma, verso mezzogiorno arrivano altre navi, e dopo un piccolo rifornimento di viveri e medicinali, alle 14 si prosegue. Alle 18 fuori Copenhagen ed alle 20 si entra in porto. Incomincia lo sbarco, e noi franchi. Mi lavo un po’ di biancheria e vado a letto. Spero che questa notte si dorma in pace, dopo 5 notti che ho dormito vestito. A mezzanotte ho assistito ad un bagno di una donna caduta in mare sotto la nostra cabina. Quante storie per tirarla su.
12/2. Lavoro poco in assistenza di sbarco. Alla sera sono andato a fare un giro per la città, senza soldi e senza voglia. Credo che oggi sia l’ultimo lunedì di carnevale.
13/2. Poco lavoro nelle stive. Questa mattina un tizio da terra ha dato istruzioni a tutto l’equipaggio in caso di attacco di agenti nemici. Io e Bepi non abbiamo potuto assistere a questa conferenza perché stranieri. Meglio cosi, ho potuto dormire due ore di più.
14/2. Sempre fermi, oggi si lava la coperta. Un lavoro discreto e non fa tanto freddo. Oggi scrivo a Teo e Belcic, vedremo quando mi risponderanno. Allarme dalle 21,40 alle 22,40.
15/2. Oggi sono 6 mesi che sono via da casa. Ho lavorato poco fino alle tre, poi riposo. Questa sera una forte scossa vicino a noi ci ha fatto lavorare, poi allarme come ieri sera.
16/2. A mezzogiorno ci hanno fatto cambiare di posto, perché vicino a noi ieri è saltata in aria tutta la banchina. Beata questa gente che ha di tutto da mangiare ed anche un certa pace, almeno fino adesso.
17/2. Oggi mezza giornata di lavoro. Il capitano tiene una conferenza a tutti, fuorché a me e Bepi. Avrà trattato dei soliti disturbi che possono succedere da queste parti.
18/2. Domenica, non ho avuto voglia di fare niente, ho dormito fino alle 11, e dopopranzo ho fatto una camminata per la città, e sono stato in un cine, alle 6 a bordo.
19/2. Oggi non avevo voglia di lavorare perciò ho domandato franchigia. Sono stato lo stesso in città in cerca del console. L’ho visto in albergo, ed ho parlato con lui per avere un vestito. Mi ha promesso che domani avrebbe mandato il suo segretario per cercare di fare qualcosa, vedremo.
20/2. Lavoro brutto in stiva tra tutta quella sporcizia lasciata dalla gente che avevamo a bordo. Finito il lavoro mi sono lavato bene, perché chissà quanto microbi sono ospiti della stiva. Oggi è venuto a trovarmi il segretario del console, sig. Lugo, mi ha fatto piacere la sua visita e mi ha promesso che avrebbe fatto qualcosa per me e Bepi. Voglio sperare che sia vero, perché ho proprio bisogno di un vestito ed anche di un po’ di libri. Benché franco, non sono uscito ed ho scritto una lettera(?) a casa.
21/2. Ho lavorato in stiva fino alle 12. Oggi una novità, fra due giorni 10 persone dell’equipaggio devono andare ad Amburgo per essere destinati chissà dove. Naturalmente io e Bepi siamo del gruppo. Chissà cosa mi aspetta nella prossima giornata; meglio non pensarci, siamo nelle mani di Dio e solo lui saprà cosa fare del nostro destino.
22/2. Tutto il giorno si corre da una parte all’altra per i documenti.
Il Diario si interrompe qui. Sarebbe stato comunque interessante conoscere le successive vicissitudini, e soprattutto l’avventuroso viaggio del ritorno a casa. Probabilmente la nave in cui era imbarcato è stata affondata come tutte le altre, ed i tedeschi, non sapendo più come utilizzare i deportati li hanno lasciati liberi di tornarsene a casa.
ALTRE INFORMAZIONI SUL COMANDANTE ZVELICH
Sul Cap. Zvelich, uomo di grandi doti morali, come si evince dal suo diario e dalla grande stima che godeva tra amici e compaesani, ci piace fornire altre, per quanto succinte, informazioni sulla sua vita e sulla sua, universalmente riconosciuta, professionalità: –
Giovanni Zvelich, classe 1910. Diplomato Capitano di Lungo Corso presso l’Istituto Nautico “Nazario Sauro” di Lussinpiccolo l’anno 1929. Durante le vacanze estive dalla scuola degli anni 1926, 1927 e 1928, si imbarcò su navi della marineria isolana come Mozzo e Giovanotto di Coperta, incominciando a “farsi le ossa” di futuro grande marinaio. Dopo il diploma incominciò la carriera di ufficiale delle navi della Marina Mercantile Italiana: allievo ufficiale, 3° ufficiale, 2° ufficiale, 1° ufficiale e finalmente la prima nomina di Comandante nel piroscafo Stamira, della Società di Navigazione Adria, nel 1942, a soli 32 anni.
Dopo il suo ritorno a casa dalla deportazione e la fine della guerra, nel 1946 riprese la vita di mare, imbarcandosi ad Abbazia, come Comandante sulla nave Witehadi.
A seguito delle note vicende politiche del dopoguerra a cui fu sottoposta la nostra regione, come tanti altri, si trasferì esule in Italia, stabilendosi con la famiglia nel paesino di Casella nell’entroterra genovese, divenuto poi un’enclave di esuli neresinotti. A Genova riprese la professione di navigante, trasferendosi poi nel capoluogo ligure con la famiglia, dove visse fino alla morte, conosciuto e molto stimato anche dai suoi nuovi concittadini, come confermato dal risalto dato dalla stampa locale alla notizia della sua scomparsa.
A dimostrazione della suo grande valore umano e della sua alta professionalità, può essere utile ricordare l’impresa compiuta dal Comandante Zvelich nel dicembre del 1960: –
In navigazione da Amuay Bay verso l’Argentina, al comando della nave “Mary Ellen Conway” il comandante Zvelich, nella notte del 6 dicembre 1960, ricevette un segnale di SOS, captato e ritrasmesso da una terza nave, che richiedeva urgente aiuto per la nave petroliera statunitense “Sinclair Petrolore”, che stava affondando in preda alle fiamme provocate da un’esplosione. La posizione della nave in fiamme, ritrasmessa dalla terza nave era 3° Sud e 440°30’ Ovest. Il comandante Zvelich, trovandosi nelle vicinanze, decise immediatamente di andare con la sua nave in soccorso dei naufraghi, tuttavia la posizione trasmessa della nave non lo convinse; analizzando bene le carte nautiche, ritenne assai poco probabile che la nave potesse essere in quel posto, anzi si convinse che vi fosse un errore nella trasmissione dei dati della posizione, secondo lui i 3° di latitudine Sud dovevano essere interpretati come 3° di latitudine Nord. Trasmise a tutte le navi del circondario i suoi sospetti e senza esitazione, cambiando la sua normale rotta di navigazione, si diresse a tutta velocità nella posizione da lui ritenuta quella giusta. Mantenne costante la rotta da lui scelta, per tutto il giorno seguente, quando poco dopo la mezzanotte del giorno 7, si videro all’orizzonte due flebili luci, poco dopo il radar evidenziò sullo schermo due puntini a sei miglia di distanza. Il comandante Zvelich si avvicinò ai due puntini e si rese conto di aver trovato le due lance di salvataggio della “Sinclair Petrolore”; comunicò immediatamente il ritrovamento a tutte le navi del circondario ed alle autorità marittime. Dopo poco le lance erano accostate alla “Mary Ellen Conway”, ed i 48 membri dell’equipaggio della nave affondata furono tratti in salvo.
Nel Maggio del 1961 il Console Generale degli Stati Uniti di Genova Stephen P. Dorsey conferì al comandante Zvelich, durante una cerimonia ufficiale nel salone del Comune di Genova, alla presenza del sindaco, una pergamena di encomio solenne e di citazione al merito da parte della Commissione Marittima del Commercio degli Stati Uniti, per la perizia marinara, l’intelligente direzione delle operazioni, l’encomiabile gesto, degno delle più nobili tradizioni marinare.
La stampa genovese, con i suoi giornali più diffusi (Secolo XIX, Corriere Mercantile, Avvisatore Marittimo e Nuovo Cittadino), diedero ampio risalto all’avvenimento con articoli e fotografie.
Nello stesso anno 1961, durante le cerimonie del Kings Poit Day of World Trade Week, la Unites States Merchant Marine Academy, scelse il comandante Zvelich, quale assegnatario del tradizionale premio (medaglia d’oro) annuale al valore marinaro.
ALTRE INFORMAZIONI SULLA VICENDA DEI DEPORTATI
A completamento delle informazioni sulla drammatica vicenda della deportazione in Germania nell'agosto del 1944 degli uomini di Neresine, reclutati forzatamente da miliziani croati Ustascia, mi è giunto un altro diario che descrive ancora quei drammatici giorni. Il diario, anche in questo caso, compilato giorno per giorno da un altro compaesano, il Teo Zuclich, testimonia la drammaticità di quell'evento e la complicità delle autorità politiche e militari italiane di presidio in paese, che erano consapevoli dello scopo a cui era tesa l'incursione dei miliziani Ustascia, tant'è che hanno preventivamente avvertito "parenti e amici", in modo che potessero nascondersi nelle campagne circostanti ed anche a Bora, sottraendosi così alla cattura.
Il diario ricalca gli avvenimenti raccontati dal Comandante Zvelich e la vita condotta dei nostri compaesani in Germania. In questo caso è raccontato anche il drammatico ritorno del Teo dalla Germania nella primavera del 1945. Con un altro compagno dalmato con cui era imbarcato, hanno intrapreso il viaggio di ritorno dal nord della Germania, incamminandosi a piedi verso Fiume, attraversando le campagne tedesche ed austriache devastate dagli avvenimenti bellici. Il viaggio è durato tre terribili mesi, con drammatiche difficoltà di trovare cibo e ospitalità da parte dei contadini. Alla fine, stremati sono arrivati nei pressi di Fiume, dove sono stati fermati dai partigiani comunisti di Tito, che avevano già occupato tutta la regione. Ai partigiani hanno raccontato le loro vicissitudini, mostrando anche dei documenti che avevano con se. Non l'avessero mai fatto! Erano documenti rilasciati dalle autorità Ustascia all'atto del loro arruolamento. La polizia politica li ha ritenuti degli ex collaborazionisti dei Tedeschi, li ha arrestati e trattenuti in prigione in attesa di ulteriori chiarimenti. Il povero Teo ha cercato di spiegare con tutte le forze che erano anche loro vittime degli Ustascia, e che non meritavano, dopo tanti torti subiti, quella sorte. Informazioni arrivate da Neresine avvalorarono la sua tesi difensiva, anche per diretto intervento del suo primo cugino, Vojno Kamalich, importante membro del partito comunista jugoslavo e capo della polizia politica OZNA nell'isola di Lussino. Alla fine, dopo quasi un mese di detenzione è stato rilasciato ed ha potuto finalmente ritornare a casa. Poco dopo, il Teo e la sua famiglia hanno potuto emigrare negli Stati Uniti, grazie l'intervento delle autorità americane, in quanto il padre, emigrato prima della guerra in quel paese, aveva con forza richiesto il ricongiungimento della famiglia. Attualmente il Teo vive in Florida.
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