Maria Canaletti
Onorato Bonic'
Dorino Muscardin
Inauguro questa nuova rubrica, mi si perdoni la banalità, intervistando la… mamma. Nata nel 1923 a Neresine da Maria Zuclich e Giacomo Canaletti (altri figli: Giacomo-Giacometto deceduto nel 1964 e Clementina-Tina) oggi ha quindi 85 anni. Si dice che la fine comincia, o dalla testa o dalle gambe, mia mamma ha cominciato da queste per i postumi di un infarto terribile subito cinque anni fa, ma la testa funziona ancora bene, anzi benissimo, con la sola particolarità, tipica degli anziani, di ricordare meglio avvenimenti successi anni addietro e non quelli di qualche giorno prima, ma in questo caso la cosa aiuta.
Papà (Gustavo Asta) si trovava lì come finanziere. Come vi siete conosciuti?
Era il 1943 e faceva servizio a Ossero, me lo presentò una mia amica Nevia Lucano. Da allora ci vedemmo spesso e ci innamorammo.
Cosa fece dopo l’8 settembre del ’43?
Si presentò da me in borghese davanti casa mia (Salita S. M. Maddalena vicino la Piazza, dove il papà aveva anche il negozio di alimentari). Gli chiesi: “Come mai in borghese?” mi disse che la situazione era precipitata e che ognuno pensava per se. Gli domandai anche dove avrebbe dormito, mi disse che aveva passato una notte all’albergo lì vicino (Amicorum) e poi non sapeva. La mamma e il papà, dopo qualche giorno acconsentirono che venisse a mangiare da noi, mentre per dormire lo sistemarono dalla sorellastra della mamma, Costanza Socolich.
Durante la prima occupazione delle isola da parte dei partigiani titini, durata circa due mesi, cosa successe di papà Gustavo?
Aiutava il papà dando una mano in negozio e facendo piccoli servizi. In paese era conosciuto e benvoluto da tutti. Ricordo che per alcuni giorni, un nostro e suo conoscente, Barba Ive Zorovich, gli procurò un nascondiglio a casa del fratello di questi (Criste)a Puntacroce.
Dopo i partigiani, arrivano i tedeschi, come andò con loro?
Per molti mesi normalmente. Nell’estate del ’44, credo in agosto, si sentì dire che stavano rastrellando giovani da spedire in Germania. Gustavo questa volta si nascose in una casa semi-diroccata, vicino alla nostra, luogo che aveva fama di frequentazioni…spiritiche e Gustavo, alla notte, per darsi un po’ di coraggio, dissotterrava qualche bottiglia di liquore che mio papà Giacomo aveva lì nascosto sotto la sabbia.
Arriviamo al secondo e…definitivo arrivo dei partigiani, come andò?
Ricordo la breve battaglia con i militari della Decima, asseragliati nell’ex caserma dei carabinieri che vidi poi scendere prigionieri, giù dalla via davanti casa. Alla sera, per cena, come credo altre famiglie, dovemmo …ospitare due graduati partigiani. Durante la cena, una nostra famigliare, che io chiamavo affettuosamente Mami, disse, sopra pensiero ai due, che Gustavo un tempo era stato un finanziere! Fortuna volle che i due non capirono bene cosa aveva detto. Ciò procurò sotto il tavolo, all’incauta, un calcio negli stinchi da parte di Gustavo.
Cosa fece successivamente il papà?
Dopo pochi giorni decise di scappare accordandosi con alcuni giovani del paese, ricordo Gino, Winter, Stanco e il figlio della Cocora. All’ultimo momento Gino si ritirò in quanto la mamma alla notizia della sua fuga si sentì male. Tino Castellanich di notte, accompagnò Gustavo dietro il monte a S. Giacomo, dove era stato fissato il punto di ritrovo e da lì con una barchetta fuggirono in Italia.
Quando tornò?
Verso la fine di agosto del medesimo anno. A Padova (dove risiedeva prima della guerra) aveva fatto i documenti per sposarsi, infatti il 10 settembre del 1945 ci sposammo a Neresine. Restammo a casa dei miei per circa un mese, poi ce ne andammo a Padova, dove Gustavo, precedentemente, aveva trovato un appartamento e sotto a questo un negozio vuoto dove successivamente aprimmo una latteria.
Se non ci fosse stata la guerra, o se la medesima non fosse finita come è poi finita, sareste rimasti a Neresine?
No, il nostro progetto (più il mio che il suo), era quello di andare via comunque, anche se devo dire che a Gustavo Neresine piaceva moltissimo.
Quando tornaste per la prima volta a Neresine?
Questo te lo ricordi anche tu perché eri con noi. Nel 1956 partimmo con una nave Jugoslava da Venezia che attraccò direttamente a Ossero. Da lì ci portò, non so chi, in caicio a Neresine ed entrando in marina, il Mauro che ci aveva intravisti, si mise a correre ed urlare “Xe rivada la Marici del Jacomo”. Devo dire che è stata una bella accoglienza.
Onorato Bonic'
Questa è la seconda intervista, ed è stata fatta ad un personaggio non certo cosi…scontato, come poteva essere quella precedente, fatta appunto alla mamma. Approfittando di un mio breve soggiorno a fine agosto di quest’anno (2008) a Neresine, ho nuovamente tentato, avendoci provato, ma inutilmente qualche anno prima, di farmi raccontare la sua storia, ma avevo ricevuto da lui cordiali, ma solo vaghe promesse di accontentarmi. Questa volta invece, non c’è stato neanche bisogno di insistere, ha accettato subito molto volentieri. Si tratta del neresinotto Onorato Bonic’, ottantacinquenne, con alcuni problemi alle gambe ma con mente lucida e acuta. Come molti dei nostri lettori sanno, Onorato, da sempre di sentimenti croati, ha ricoperto dopo la guerra incarichi politico-amministrtivi sia a Neresine che a Lussino, naturalmente all’interno dell’unico partito allora esistente: il PCJ, per come lui la definisce, “la ricostruzione del paese”. L’oggetto dell’intervista è però più incentrato sulla sua tremenda esperienza nel lager di Tito di Goli Otok quale “cominformista” cioè coloro che parteggiavano per Stalin, quando questi ruppe con la Yugoslavia nel 1948, accusa come lui stesso dirà, completamente falsa.
L’intervista mi è stata rilasciata a casa sua in Biscupia, martedì 26 agosto 2008 (vedi foto).
Quando e dove siete nato?
Sono nato a Neresine il 13 febbraio 1923
Dove vi trovavate l’8 settembre 1943?
L’8 settembre mi ha colto vicino a Belgrado, fui catturato dai tedeschi e trasportato prigioniero in Germania, dove vi rimasi fin quasi la fine della guerra. Nell’aprile del ’45 riuscii a fuggire dal campo di concentramento e raggiungere Venezia, dove rimasi fino ad ottobre per poi tornare a Neresine.
Cosa faceste a Neresine?
Partecipai alla ricostruzione del paese quale dirigente giovanile del partito comunista. Infatti nelle elezioni amministrative svoltesi in Istria e nelle isole il 25.11.1945 per la costituzione dei comitati polari locali, fui eletto a Neresine. Poi nelle elezioni per l’assegnazione delle cariche interne al comitato fui eletto segretario (in ballottaggio con Antonio Zuclich).
Quanto durò il vostro impegno politico?
Fino all’ottobre del 1948. Ma già allora non ero più segretario della cellula neresinotta, ma segretario del comitato giovanile antifascista distrettuale di Lussino, quando per divergenze con la linea politica del partito nell’organizzazione locale, mi dimisi dalla quella carica.
Quali furono queste divergenze?
Avrei voluto creare una organizzazione in grado di poter dare una direzione alla gioventù, che in quella nuova situazione politica e sociale si trovava smarrita. Ma ogni iniziativa sottostava al controllo rigido del partito, ma io ero riuscito comunque a creare un’organizzazione autonoma e libera di agire che organizzava manifestazioni culturali e sportive, conferenze, feste da ballo e altro ancora. Ma ben presto fui chiamato all’ordine, ricordandomi che la mia qualità operativa dipendeva esclusivamente dal come e quanto puntualmente fossi stato capace di eseguire le loro direttive.
Come andò a finire?
All’ammonimento seguì un cambio della guardia, fui destituito e inviato a Zagabria a seguire un corso di formazione per dirigenti giovanili, successivamente ebbi il compito di
organizzare il lavoro ideologico-culturale della gioventù nella regione istriana.
Quando tornaste a Neresine?
Nell’autunno del 1947. Fui nominato segretario organizztivo nel distretto di Lussino. Ma sempre più le mie posizioni si divaricarono da quelle dei dirigenti locali: i dirigenti affermavano che il potere popolare rappresentava una cinghia di trasmissione per la politica del partito nell’edificazione del socialismo, io sostenevo che il partito non doveva avere altri fini se non quello di far governare il popolo
Come andò a finire?
Nell’autunno del 1948 fui sfiduciato dai membri della mia organizzazione per cui seduta stante rassegnai le dimissioni.
Quali furono le conseguenze di questo vostro atteggiamento?
Sono stato arrestato dalla polizia di Tito il 5 maggio 1949 per non aver voluto continuare il mio impegno nel partito. Per loro era inammissibile il passo da me compiuto, dal partito, una volta entrati, si poteva venir espulsi, ma non assolutamente andarsene di propria iniziativa. Ricordo che quel giorno i poliziotti entrarono con la pistola in pugno nell’ufficio della centrale elettrica di Lussino, dove io lavoravo come contabile. Ricordo anche che chiesi loro di attendere un po’, in quanto stavo terminando dei conteggi importanti.
Eravate forse anche pro-Mosca? come dicevano loro, un cominformista?
No assolutamente, anzi ero apertamente contro la sottomissione della Yugoslavia a Stalin. Durante la mia prigionia in Germania avevo avuto modo di parlare con i prigionieri russi, che mi misero al corrente di ciò che succedeva in Russia.
Dove vi portarono?
Mi portarono in carcere a Lussino presso lo stabile conosciuto come casa Eustachio Tarabocchia, mi dissero che mi mettevano al sicuro in quanto la popolazione di Neresine era imbestialita contro di me e mi avrebbe voluto linciare, cosa naturalmente non vera.
Quanto rimaneste in prigione?
Vi rimasi fino al 5 settembre 1949, esattamente 4 mesi.
Subiste delle violenze?
Si, fui interrogato per ben 105 ore subendo anche dei maltrattamenti.
Cosa volevano sapere?
Volevano sapere quello che la gente pensava della Russia.
Riceveste visite di famigliari?
Si, venne a trovarmi la mamma, che invece di piangere mi accolse con un bel sorriso e con cenno del capo mi fece capire che approvava il mio comportamento. Questo suo comportamento mi dette tanta forza anche per il seguito, le sono stato sempre riconoscente per questo e la ricordo con tanto affetto anche adesso. I miei carcerieri le dissero che avrei dovuto abbassare la testa, rispose loro che difficilmente ciò sarebbe avvenuto, visto che lei non c’era mai riuscita.
Dopo cosa succedette?
Mi portarono a Fiume e da lì a Goli Otok dove vi rimasi quasi 2 anni.
Quale fu l’accusa?
Lo seppi molto tempo dopo, durante un viaggio in un battello che faceva la spola tra Lussinpiccolo e Fiume, avevo preso parte ad una discussione con uno studente di Zagabria che manifestava simpatia per l’URSS, io ero stato accusato di non averlo denunciato! Non furono però estranei alcuni personaggi neresinotti allora coinvolti politicamente in paese, uno in particolare, e dire che successivamente, avrei potuto vendicarmi, ritornandogli pan per focaccia, ma non l’ho feci.
Furono arrestate altre persone dell’isola di Lussino?
Si, ricordo nelle celle vicino alla mia, i fratelli Nico e Toni Vukas, Carlo Smojver di Lussinpiccolo e Giorgio Kamalic anche lui di Neresine.
Si ricorda il giorno del suo arrivo a Goli Otok?
Come no! Arrivammo con una nave in 600. Appena scesi dovemmo sottostare al rito di accoglimento dei nuovi reclusi. I prigionieri dell’isola si disponevano in due file a formare un lungo corridoio, noi dovevamo passare in mezzo e loro ci insultavano e ci colpivano con calci e pugni.
In cosa consistevano i lavori forzati?
Dovevamo, immersi nudi in mare fino al petto, raccogliere con delle pale la sabbia e depositarla all’interno di un barcone. Tieni presente che quando portavamo la pala dal fondo verso la superficie del mare, la sabbia che potevamo versare nella stiva del barcone era minima in quanto si disperdeva quasi tutta durante l’operazione.
E nei mesi invernali?
Lo stesso!
Ma non ci si congelava?
No, il corpo umano se si muove in continuazione anche se immerso nell’acqua gelida non si congela. Naturalmente molti cedevano e venivano portati via e non li vedevamo più.
Faceste sempre quel tipo di lavoro?
Dopo tre, quattro mesi, arrivo nell’isola un ispettore croato che si rese conto che non ero pro-Mosca e cercò nel limite del possibile di migliorare la mia situazione.
In che modo?
Mi misero a lavorare come pescatore per procurare il pesce ai dirigenti del penitenziario. Ci davano delle croste di pane vecchio da adoperare come esca, naturalmente io e i miei compagni di lavoro ne approfittavamo per sfamarci, tanto i pesci non avrebbero mai fatto la spia! Gli ultimi mesi di prigionia li trascorsi inquadrato nella Brigata di lavoro “volontario” per la costruzione della strada da Fiume a Ragusa.
Quando foste liberato?
Il primo agosto del 1951. Tornai a Neresine e fui obbligato a collaborare con la polizia segreta. Dovevo, come dicevano, per riconoscenza verso il partito che aveva fatto tanto per me, anche se avrei meritato la pena di morte, informarli segretamente su quanto sarei riuscivo a sapere dai miei conoscenti in merito a quello che pensavano del regime e della situazione politica.
Foste quindi costretto a fare la spia?
Mi comportai in questo modo: loro mi davano i nomi che io dovevo sorvegliare, io mi recavo da questi e li informavo che cosa io avrei dovuto fare, quindi mettendoli in guardia. Naturalmente la polizia segreta se ne accorse quasi subito, mi convocarono e mi dissero se mi aveva dato di volta il cervello, probabilmente lo pensarono davvero e non mi costrinsero più a fare la spia. Però per molto tempo fui “boicottato”. Non dovevo farmi vedere in pubblico a parlare con la gente, soprattutto con coloro verso i quali il partito conduceva una campagna diffamatoria. Uno di questi era Niccolò Maglievaz, di mestiere idraulico da Lussinpiccolo. Un giorno venne a lavorare a Neresine vicino a casa mia. Qualche giorno dopo l’arrestarono con l’accusa di aver conferito con me, cosa assolutamente non vera. Morì in carcere, dicevano che si era suicidato. Dopo diversi anni dalla sua scomparsa, sua madre mi disse che l’avevano ucciso perché negava ostinatamente di avermi incontrato quella volta a Neresine.
L’ultima domanda: Cosa pensate ora del comunismo.
Tito come curava la propria immagine così curava anche l’aspetto esteriore del suo stato che visto dall’esterno appariva impeccabilmente democratico ma questa impeccabilità democratica copriva un contenuto di marciume terroristico. Nello stato di Tito chi comandava non era il popolo ma il partito, o come lo chiamarono dopo, per farlo apparire più democratico, la Lega dei Comunisti, e soprattutto l’UDBA, la polizia segreta che alimentava incessantemente la fiamma del terrore. Il comunismo ha apportato disastrose conseguenze, fra le molte ideologie del diciannovesimo secolo, quella del marxismo è stata forse la più funesta.
Politicamente come vi definite?
Sono sempre stato di idee democratiche, un uomo di sinistra, ma sono stato sempre contrario al regime terroristico instaurato dal comunismo. Se ne ho fatto parte era solo per mitigarne dall’interno gli effetti e cercare di aiutare il mio paese che tanto amo.
Dorino Muscardin
Osserino di Verin. E’ nato il 2 gennaio 1928 da madre neresinotta e padre osserino. Quindi 86 anni appena compiuti (gennaio 2014) e occorre dire molto ben portati e, vista la longevità dei genitori (la mamma è mancata a 97 anni) probabile candidato centenario, fatto che non nasconde di prendere in ”seria considerazione”.
Una carriera la sua, prima trascorsa come molti altri suoi coetanei nel mare quale direttore di macchine, poi in terra ferma fino alla pensione, quale dirigente del porto di Venezia. Una bella voce forte e ben intonata, che sovente apre le "cantade" alla fine dei nostri raduni, osserino naturalmente in primis, ma anche in quello neresinotto. La sua esibizione canora del simpatico ed orecchiabile motivetto anteguerra che si può reperire anche in internet nella versione “ufficiale” cantata da Daniele Serra, “Lussinpiccolo”
(…a Lussinpiccolo che è molto piccolo dove ogni cosa è assai piccina in verità…) rappresenta per generale riconoscimento il suo cavallo di battaglia.
Lo abbiamo incontrato per avere notizie in merito alla c.d. battaglia di Ossero (quella svoltasi il 20 aprile 1945) visto, e lo sapevo, che ne era stato involontario testimone. Questo avvenimento che, con i successivi, svoltesi nel medesimo giorno a Neresine e Lussinpiccolo, conclusero nelle nostre isole le operazioni militari della Seconda Guerra Mondiale che con l’occupazione delle truppe di Tito portarono in quei luoghi alla fine della sovranità italiana.
L'intervista si è svolta il 7 gennaio 2014
Cosa potete dirmi dello sbarco dei partigiani avvenuto nei pressi di Verin?
Era il pomeriggio del 19 aprile 1945 (n.d.r. – era di giovedì). Avevo 17 anni, mi trovavo in casa della mia famiglia a Verin, un piccolo agglomerato di case (tre) sulla costa orientale dell’isola di Cherso. Già da alcuni giorni si sapeva della presenza di piccoli gruppi di partigiani che si erano nascosti nei boschi circostanti. Quella sera, assieme ad altri di Verin, fui prelevato a casa mia, e condotto in Galboca, un’insenatura che era ed è il porticciolo di Verin, dove fui testimone dello sbarco da motovelieri e zatteroni sull’unico punto adatto allo scopo (credo che fossero guidati da esperti del luogo!) di una grande quantità di partigiani titini, che si accalcavano sulla riva e sul prato vicino. Ricordo uno strano incontro, ero seduto su un sasso, assistevo al caotico via-vai, avevo freddo (ero in pantaloncini corti!) quando mi si avvicinarono tre partigiani che mi rivolsero una serie di domande sulla presenza in quei luoghi di fascisti; io non comprendevo bene il loro croato, allora mi si rivolsero in italiano, rivelandomi che erano italiani (mi pare che uno fosse di Benevento, uno di Bari ed il terzo lui pure del meridione d’Italia). Notai anche la presenza di una compagnia di soldati inglesi che erano addetti alle comunicazioni e che poi si diresse da Verin verso Puntacroce. Un ufficiale mi chiese di accompagnarli (era già notte) nelle vicinanze di Ossero. In quattro colonne, mossesi in tempi diversi, una guidata da mio padre, due da persone del luogo, la terza, composta da almeno 500 partigiani, da me. Attraverso il bosco li portammo fino alla strada provinciale in località Pescenì, presso Ossero, dove io arrivai con la mia verso le tre di mattina. Vidi che quelli arrivati prima stavano già scendendo, disposti in due file indiane ai lati della strada, verso Ossero.
Come proseguì la sua avventura?
A Pescenì, dopo uno scambio di…vedute, con minacce e successivi chiarimenti con un ufficiale, mi fu ordinato di accompagnare quattro soldati a Bellei. Cominciava a fare un po’ di chiaro verso oriente, erano circa le 3 e mezza, quattro del mattino e si cominciavano a vedere i lampi della battaglia che era stata ingaggiata con il contingente di tedeschi a Ossero. Non si sentiva nulla, perché c’era una leggera brezza di borin. Lì a Pescenì, e poi anche in seguito, sulla strada verso Bellei, ho vissuto quella notte varie esperienze veramente traumatiche che non sto tutte a raccontare, con momenti di vera paura, tanto che feci voto che se fossi rimasto vivo quella notte, sarei andato scalzo da Verin alla chiesetta della Madonna di Lose. Cosa che poi in effetti feci. Con i quattro partigiani arrivammo a Bellei e di lì ritornai a casa a Verin. Il medesimo giorno (venerdì 20 aprile 1945 - ndr) verso le ore 14 alcuni partigiani vennero a casa nostra e ci ordinarono di trasportare due feriti a Neresine, uno dei quali molto grave. I feriti erano adagiati su due barelle che richiedevano per il trasporto quattro persone per ciascuna di esse. Attraverso il bosco ci incamminammo nuovamente sulla strada che portava a Ossero, la stessa che avevo percorso la notte appena passata. Arrivati, come nella mattinata sull’altura di Pescenì, scendemmo per la strada verso Ossero per poi passare a Neresine.
A questo punto le faccio questa domanda: Alcuni testimoni riferiscono, ma in contraddizione tra di loro, che oltre al massacro di tutto il contingente tedesco, ci furono moltissimi morti anche tra le file partigiane. Lei nel passare per Ossero cosa vide?
I segni della battaglia avvenuta poche ore prima erano più che evidenti, a cominciare dalla tragica visione che ebbi dei tre corpi dei soldati tedeschi orrendamente maciullati nella loro postazione di fuoco posta ai piedi del muro del cimitero in prossimità dell’attuale rotonda stradale all’entrata di Ossero. Ma di morti partigiani non ricordo di averne visti. Sono però sicuro che il contingente tedesco non fu tutto annientato nel corso della battaglia. Infatti i partigiani fecero 15 o 16 prigionieri che furono portati a Bellei, e lì una parte di loro fu fucilata.
Arrivò quindi a Neresine
Si, i due feriti furono visitati dal dott. Marconi, evidentemente comandato a tale compito, ricordo che per uno dei due disse che c’era ben poco da fare. Successivamente ci ordinarono di portare i due feriti verso Bellei. Sulla strada del ritorno verso Ossero, appena fuori Neresine, incontrai una colonna di asini e cavalli accompagnati da partigiani che veniva verso di noi, tra di loro, c’era mio padre e mio fratello. Incrociandoci, chiesi di potermi scambiare con mio fratello, fui accontentato prendendomi in carico il suo asino carico i munizioni, da li andammo a Magaseni dove le scaricammo. Conclusa l’operazione, con un mio amico che era la anche lui, ci recammo a casa dei miei nonni. La mattina dopo, nonostante l’ordine che avevamo ricevuto il giorno prima, di ritornare a Magaseni, decidemmo di cercare di ritornare a casa portando con noi l’asino per cui ci dirigemmo verso Tarsic. Da lì scendemmo verso Ossero, preoccupati su come avremmo potuto attraversare il ponte, dato che lì c’erano sempre guardie armate, ed essendo tutti gli asini requisiti per le necessità militari ci avrebbero certo chiesto del nostro. Non ricordo quale “storiella” raccontammo alle guardie del ponte, ma riuscimmo a transitare. Il mio compagno rimase ad Ossero, io proseguii attraverso sentieri di campagna non frequentati fino a Verin. Ero appena arrivato, che fui subito nuovamente …requisito con l’asino e accompagnato a Belei dove venni incaricato del trasporto di vettovaglie, cavi telefonici, munizioni in un’altra località non ben identificata. Dopo una notte di via vai senza sosta alla ricerca del posto dove dovevamo andare, io e un altro compagno di ventura capimmo, dopo quel lungo vagabondare, che la località che il partigiano che ci accompagnava cercava, era il paesino di Stivan (San Giovanni). Lì arrivati, il soldatino (era molto giovane) aveva ordini di farci ritornare al punto di partenza con gli asini. Ci ribellammo e montati sugli asini ce ne andammo attraverso la campagna verso Verin. Ero stanchissimo, morivo dal sonno, ricordo che, montato sull’asino, stanco anch’esso, dovevo stare attento a non cadere, perché ogni tanto mi assopivo.
Beh! Una giornata alquanto movimentata! E diciamo un po’ pericolosa!
Si certamente, non potrò mai dimenticarla.
(Questa intervista è stata pubblicata sul n° 21- febbraio 2014 del nostro giornalino)